di Sabina Addamiano*

 

Una magnifica lezione, sulla quale è il caso di fare una riflessione. Si è tenuta nell'ambito dell’ultima edizione di Immaginario Festival al Centro Camerale Galeazzo Alessi di Perugia.

I nostri docenti sono stati sei laureati e una laureanda del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura dell'Università perugina, che hanno illustrato i loro progetti sviluppati come tesi di laurea: sette progetti di Ambasciate Culturali.

Così come una città capitale ospita le rappresentanze dei Paesi con cui una nazione intrattiene relazioni diplomatiche, così una Capitale della Cultura può, a buon diritto, ospitare Ambasciate Culturali. 

Dove collocarle? In alcuni dei 160 contenitori vuoti censiti in occasione di un recente workshop dall'ISIA di Urbino nel centro storico di Perugia e nelle zone limitrofe.

Da qui è partito il lavoro progettuale dei sette giovani ingegneri-architetti, fondato sulla consapevolezza che abbandono e museificazione sono due rischi concreti cui sono esposte le città d'arte. 

Lo sappiamo dal pionieristico convegno tenuto a Gubbio nel 1960, cui ha fatto seguito, a partire dal decennio successivo, l'intenso lavoro di riflessione teorica sviluppato dal Consiglio d'Europa.

Cina, Cipro, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Stati Uniti d'America hanno dunque trovato, grazie a questi progetti, le loro “case della cultura” in edifici o in aree fortemente eloquenti del tessuto urbano di Perugia: rispettivamente il Palazzo San Bernardo, il Cinema-Teatro Lilli, la Chiesa di San Benedetto Novello, il Cinema Modernissimo, il Teatro Turreno, il Parcheggio della Canapina, la Piazza del Bacio (a completamento del progetto incompiuto di Aldo Rossi).

L'accorto sostegno delle professionalità docenti che hanno seguito lo sviluppo dei lavori ha fatto sì che i progetti si fondassero sul connubio consapevole tra conoscenza e creatività. 

Conoscenza dei materiali, della normativa, dei vincoli urbanistici, dei rischi di cui sopra, delle soluzioni proposte dalla cosiddetta “architettura parassita” del nuovo sull'antico, per usare la calzante definizione di Sara Marini; ma anche conoscenza approfondita delle stratificazioni di funzioni e significati che col tempo si sono sovrapposte negli edifici e nelle aree scelte. 

Un paziente e prezioso lavoro d'archivio ha infatti costituito il fondamento di ciascun progetto, e in alcuni casi ha restituito alla memoria della città momenti inediti della sua storia. 

Si è ad esempio chiarita la relazione – sempre asserita, ma sinora mai documentata – che lega Guglielmo Calderini a Carlo Promis; fu l'ingegnere astigiano Giuseppe Polani, allievo di Promis, a far conoscere al giovane Calderini il linguaggio del suo maestro, durante i lavori di costruzione del carcere maschile perugino.

I progetti hanno espresso anche una variegata creatività che ha preso le mosse da sollecitazioni culturali coerenti con la fisionomia del Paese destinatario di ciascuna Ambasciata, e insieme rispettosa del genius loci che presiede ad ogni edificio. 

Dalla decostruzione di un ideogramma cinese al raffronto tra gli inni nazionali polacco e italiano, passando per la riflessione sui muri come confini tra Paesi e il richiamo ad elementi di cultura architettonica delle diverse tradizioni nazionali, si è avuta ampia dimostrazione del fatto che – come ha ricordato Paolo Belardi nell'introdurre il lavoro dei sette giovani ingegneri – “ogni esercitazione didattica è necessariamente visionaria”.

E la visione si è spinta a immaginare le funzioni e le attività da svolgere negli ambienti riconfigurati. 

Dagli spazi per le jam session ai percorsi espositivi, dalle biblioteche agli auditorium, dalle residenze per artisti e studiosi ospiti ai teatri, ogni Paese è stato immaginato anche nelle possibili espressioni culturali della sua Ambasciata, salvandoci in tal modo dalle tristi memorie dei “contenitori culturali” (spesso restaurati con gran dispendio di fondi europei negli anni '80 e '90, e abbandonati al degrado pochi mesi dopo l'inaugurazione) di cui l'Italia è disseminata: luoghi ulteriormente deprivati di senso, e ancor più abbandonati dopo gli interventi di (presunto) recupero.

Le sette proposte di rigenerazione del costruito sono state quindi una bella occasione di recupero o acquisizione di memorie urbane, ma non solo. E se, come ha ricordato Vittorio Gusella, una delle dimensioni della qualità è l'evidenza, i sette progetti presentati sono indubbiamente lavori di qualità, anche per la cura e la varietà delle loro presentazioni ricche di infografiche, documentazione fotografica, animazioni e rendering.

Per riprendere l'auspicio finale di Rubens Piovano, sarebbe bello che Perugia avesse, se non delle ambasciate culturali, almeno una Casa delle culture europee, così da dare accoglienza e respiro a una dimensione internazionale della città ben presente in singoli eventi o luoghi, ma forse incapace di esprimersi con continuità e capacità di radicamento – non solo fisico – nel tessuto cittadino.

 

*Sabina Addamiano, docente di Marketing presso l’Università degli Studi Roma Tre, è consulente di comunicazione e marketing e specialista di content design presso istituzioni pubbliche, imprese e organizzazioni non profit

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