di Federico Gurgone

Quando Pino­chet passò in ras­se­gna i cal­cia­tori della nazio­nale per strin­gere loro la mano, nel 1974, il bom­ber Car­los Caszely man­tenne le brac­cia con­serte die­tro la schiena. Rice­vuto dopo il trionfo mon­diale del 1962, unico tra i suoi com­pa­gni, Gar­rin­cha non chiese un’auto o una villa al pre­si­dente del Bra­sile: pre­tese da lui che libe­rasse un uccello dalla gab­bia. È un cli­ché, dun­que, la spo­li­ti­ciz­za­zione del popolo sen­ten­ziata dal Gio­ve­nale del panem et cir­cen­ses. È banale spie­gare il fre­quente sin­tagma violenza-sport con l’esigenza degli uomini di sfo­gare i peg­giori istinti.

Due con­cetti riba­diti bril­lan­te­mente dall’esaustivo sag­gio I gla­dia­tori (il Mulino, pp. 140, euro 12) in cui Chri­stian Mann, pro­fes­sore di sto­ria antica presso l’università tede­sca di Man­n­heim, lasciando da parte le abu­sate cate­go­rie della morale sto­ri­cizza il mito dei com­bat­ti­menti nelle arene, cen­trando l’obiettivo di chia­rire una volta per tutte come mai essi siano stati pos­si­bili pro­prio tra le maglie dell’impero romano.

Il giro d’affari ali­men­tato dai ludi gla­dia­tori al tempo di Marco Aure­lio è stato cal­co­lato in cen­to­venti milioni di sesterzi l’anno: il soldo di cen­to­mila mila legio­nari. Inve­sti­menti tanto ingenti da con­fer­mare la neces­sità poli­tica del feno­meno. Nel XXI secolo essere il pro­prie­ta­rio di una squa­dra di cal­cio aiuta nelle urne; due­mila anni fa sedurre gli appas­sio­nati di anfi­tea­tri era fon­da­men­tale. Nel 122 a.C., il tri­buno Gaio Gracco aumentò la sua popo­la­rità impo­nendo la demo­li­zione delle tri­bune per pri­vi­le­giati che pre­clu­de­vano la visuale al resto del pub­blico. Nel 63 a.C. — evi­den­te­mente il con­flitto d’interessi all’epoca si poteva affron­tare — il senato decise che nes­sun poli­tico potesse can­di­darsi nell’anno in cui avesse orga­niz­zato un munus.

I gla­dia­tori com­bat­te­vano sem­pre il pome­rig­gio, quando anda­vano in scena dai 5 agli 8 duelli. Non pro­nun­cia­vano mai la for­mula Ave Cae­sar, mori­turi te salu­tant, a quanto pare mor­mo­rata esclu­si­va­mente — e a ragione — dai 19mila cri­mi­nali con­dan­nati alla nau­ma­chia all’ultimo san­gue orga­niz­zata da Clau­dio sul lago del Fucino. I più apprez­zati erano i duelli in cui si scon­tra­vano arma­tu­rae diverse: retia­rius con­tro secu­tor, thraex con­tro mur­millo. Chi indos­sava un arma­mento leg­gero, come il rezia­rio con la rete avvol­gente e il trace dall’elmo cre­stato, sal­tel­lava attorno al rivale pun­tando sulla supe­riore agi­lità e su una tec­nica «mordi e fuggi»; le cate­go­rie più pesanti, come l’inseguitore e il mir­mil­lone con il suo robu­sto scudo, cer­ca­vano in con­ti­nua­zione lo scon­tro rav­vi­ci­nato.

Rara era la morte in bat­ta­glia di uno dei con­ten­denti. La punta delle armi era arro­ton­data e i bruti erano disprez­zati: Her­mes, elo­giato da Mar­ziale, sapeva vin­cere senza ferire. Spesso si ter­mi­nava con un pareg­gio e i due avver­sari erano stan­tes missi: con­ge­dati in piedi. Stu­diando le iscri­zioni sepol­crali e i rilievi ono­rari com­mis­sio­nati dagli orga­niz­za­tori, lo sto­rico fran­cese Geor­ges Vil­les ha sti­mato che nel I secolo d.C. lo scon­fitto rice­vesse la gra­zia nell’80 per cento dei casi. Se un com­bat­tente fosse morto, il lani­sta — il patrono dei gla­dia­tori — avrebbe dovuto for­mare da capo un atleta, magari meno bravo del pre­de­ces­sore; il mune­ra­rius — l’organizzatore — avrebbe pagato una multa al lani­sta: «chi rompe paga», sin­te­tizza Mann.

Nell’anfiteatro, il popolo romano influiva sull’esito, e lo sapeva. Il pub­blico era tec­ni­ca­mente com­pe­tente e apprez­zava le abi­lità tec­ni­che mostrate dai duel­lanti. Tut­ta­via, era col­pito soprat­tutto dalle loro qua­lità morali: un corag­gio e uno sprezzo della morte che, secondo il romano medio, dove­vano costi­tuire la pura essenza del suc­cesso dell’aquila impe­riale.

«Nell’anfiteatro, il con­fine prin­ci­pale non pas­sava tra gli spet­ta­tori, ma sepa­rava la cavea dall’arena», sot­to­li­nea Mann. I com­bat­ti­menti fini­vano così per rap­pre­sen­tare la coreo­gra­fia dell’unitarietà della società romana, cemen­tata da una deci­sione col­let­tiva sulla vita e sulla morte: l’imperatore doveva farsi inter­prete del volere popo­lare, indo­vi­nando il giu­sto equi­li­brio tra durezza e cle­menza.

Sem­bra para­dos­sale, eppure toc­cava a dei reietti mostrare al pub­blico cosa signi­fi­casse essere un romano. La pré­mé­di­ta­tion de la mort est pré­mé­di­ta­tion de la liberté, scrisse però Mon­tai­gne. Nel 73 a.C. poche decine di gla­dia­tori, gui­dati dal trace Spar­taco, eva­sero da un ludus nei pressi di Capua per dare ini­zio alla più grande rivolta di schiavi della sto­ria. Se ne sareb­bero ricor­dati non solo Karl Lie­b­k­ne­cht e Rosa Luxem­burg, ma anche il sin­da­cato che avrebbe fon­dato lo Spar­tak Mosca, la vera squa­dra del popolo sovie­tico. Alla fac­cia della Dinamo, con­trol­lata dalla poli­zia segreta, e del Cska, pro­prietà dell’esercito.

 

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