Alessandro Fo

 

In un suo romanzo, Luca Canali si effi­gia come il gio­vane affa­sci­nante pro­fes­sore che si com­piace di «fare colpo» arri­vando in facoltà con la sua spi­der. E così lo ritrae Mau­ri­zio Bet­tini, sui pro­pri ricordi di stu­dente a Pisa: non gli era sfug­gito quello «strano lati­ni­sta», che era un intel­let­tuale impe­gnato, ma al con­tempo un uomo di mondo, e un affer­mato scrit­tore, non ancora fal­ciato dalla depres­sione. È que­sto solo uno dei molti Luca che si sono inse­guiti in una vita ricca tanto di suc­cessi quanto di infe­li­cità.

Canali è stato un impor­tante divul­ga­tore della cul­tura latina, sia come tra­dut­tore (Lucre­zio, Catullo, Vir­gi­lio, gli ele­giaci, Lucano e molti altri), sia come autore di romanzi che «riscri­vono» l’avventura bio­gra­fica di alcuni grandi scrit­tori da lui sem­pre amati (si pensi a Lucre­zio e Giu­lio Cesare). Ha avuto anche un’apprezzabile for­tuna come roman­ziere, soprat­tutto con Auto­bio­gra­fia di un baro (1983), il libro che accom­pa­gnò le sue dimis­sioni dall’università con una pub­blica con­fes­sione di tutti que­gli aspetti del carat­tere (e della soc­com­bente con­di­zione di malato) con i quali, pur in costante lotta inte­riore, si tro­vava costretto a con­vi­vere.

Ma è stato soprat­tutto un poeta, e credo che di tutta la sua pro­du­zione, così ricca e diva­ri­cata dalla sag­gi­stica alla prosa d’arte, pro­prio la poe­sia sia l’ambito in cui si è espresso ai livelli più alti. Lati­ni­sta in erba, sen­tii il mio mae­stro Bruno Lui­selli espri­mersi in modo toc­cante sulla rac­colta La deriva (1979). Com­prai quel libro e lo sco­prii dolente, pro­fondo e memo­ra­bile. Come quasi sem­pre le poe­sie di Canali: è spe­cial­mente nei versi che egli sa cogliere, della vita e delle sue com­pli­cate sinuo­sità, ciò che risulta essen­ziale e rile­vante.

Più tardi ho avuto la for­tuna di cono­scerlo per­so­nal­mente e col­la­bo­rare con lui all’Anto­lo­gia della poe­sia latina dei «Meri­diani», di acce­dere alla sua casa tutta libri e felini, di cogliere in lui (da un vetu­sto divano) un Camões in disarmo che, esau­ri­tasi la can­dela, con­ti­nua a scri­vere al lume degli occhi del gatto. Il play-boy della spi­der era dive­nuto un anziano ferito, schivo, intro­verso. Ma era stato e rima­neva un uomo nobile e gene­roso. La melo­dia del Quin­tetto op. 115 di Brahms, die­tro fat­tezze severe, degne del Velá­z­quez che immor­talò l’acquaiolo di Sivi­glia.
Da stu­dioso, ho talora riper­corso il ruolo dei suoi scritti nella rice­zione dei clas­sici, e in que­sto ambito ho asse­gnato molte tesi su di lui. L’ultima, di Ste­fa­nia Gar­gano (il cui capi­tolo bio­gra­fico è da ieri dispo­ni­bile su Face­book), chia­ri­sce come, secondo una frase di Ripel­lino «ogni discorso sugli altri è un dia­rio truc­cato» (pro­prio da Il trucco e l’anima). Nelle sue molte «riscrit­ture» del per­so­nag­gio di Catullo, Canali ha dipinto le pro­prie dif­fi­coltà nella sfera degli amori. Avver­tiva in modo quasi inva­sivo e lace­rante l’ineluttabile sedu­zione della bel­lezza fem­mi­nile. E tanto più ne sof­friva in quanto si sen­tiva ina­datto a ono­rarla come amante plau­si­bile, come atten­di­bile marito.

Meno risa­puto è che una parte della sua poe­sia si è rivolta, da lon­tano, al divino. Pur dall’osservatorio di un deso­lato mate­ria­li­smo, Canali ha guar­dato spesso con dispe­rata nostal­gia a quella forse illu­so­ria, ma pos­si­bile, pace. Una ricerca che, a quanto pare, lo ha accom­pa­gnato fino alle ultime ore. È Il vuoto cui s’intitola una poe­sia di Sti­lemi (Milano 1982): «Tuona d’aprile. Pasqua è già lontana/ con due visite in chiesa per amore/ di figlia e sposa. Non sem­brò blasfema/ tra i misteri euca­ri­stici la visita/ d’un uomo senza pace e senza fede./ Scro­sci di piog­gia seguono quel tuono./ Non siamo andati in chiesa stamattina/ e sento un vuoto oscuro den­tro il cuore,/ che non è fede riac­qui­stata, o voglia/ di riac­qui­starla con scarsa moneta,/ è una forma indi­retta, con­tro il vuoto,/ di ricon­durre il sacro nella vita».

Nell’affollarsi delle voci, nell’usa-e-getta che con­nota molto dell’attuale rap­porto fra let­tere e pub­blico, c’è da temere che in breve pos­sano non essere più in molti gli «addetti ai lavori», o i sem­plici let­tori, capaci di ricor­darsi di lui. Sogno spesso una col­lana di Paral­leli desti­nata a voci poe­ti­che di prima qua­lità, come Enzo Mazza o Angelo Maria Ripel­lino, che paiono aver biso­gno di alfieri con­vinti e tenaci per difen­dersi da «canoni sbri­ga­tivi’ e con­danne all’oblio. Vi figura ideal­mente anche Luca Canali, in attesa di un auspi­ca­bile Meri­diano che la sua voce austera e dispe­ra­ta­mente lucre­ziana – della stessa «solenne tri­stezza» che Anto­nio La Penna segnala in Lucre­zio – si è meri­tata.

Come è stato spesso ricor­dato, di fronte alla malat­tia Canali ha cer­cato, se non un’arma per «spez­zare l’assedio» (è il titolo di uno dei suoi romanzi), almeno una sua difesa nell’affetto della figlia e nella costante pra­tica della scrit­tura, quasi un per­pe­tuo esor­ci­smo. Così mi sem­bra che il migliore con­gedo sia tor­nare a quei suoi versi di Interno fami­gliare (ancora da Sti­lemi), in cui Canali ferma un dia­logo con la pic­cola Giu­lia. Ci sono i clas­sici, la sor­presa e l’incanto della natura e della poe­sia, la tene­rezza del padre: «(…) Ha voluto per com­mento al suo pasto che le nar­rassi una sto­ria di Ulisse,/ e più tardi, entrando fra le coperte, mi ha chie­sto noti­zie delle meduse:/ non sapeva che fos­sero ani­mali, ho aggiunto che ustionano/ con il velo lat­ti­gi­noso la mano pro­tesa a ghermirle;/ allora ha chio­sato con un errore che l’assembrava a un fra­ti­cello dei Fioretti:/ ’Gesù ha dato ad ognuno la sua difensione’».

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