Gabriel García Márquez

Oso pen­sare che sia stata que­sta realtà fuori dal comune, e non sol­tanto la sua espres­sione let­te­ra­ria, a meri­tare quest’anno l’attenzione dell’Accademia sve­dese delle Let­tere. Una realtà che non è quella di carta, ma vive con noi e deter­mina ogni istante delle nostre innu­me­re­voli morti quo­ti­diane, ali­men­tando una sor­gente crea­tiva insa­zia­bile, piena di sven­tura e di bel­lezza. Della quale que­sto colom­biano errante e nostal­gico non è nulla di più che un numero mag­gior­mente segna­lato dalla sorte. Poeti e men­di­canti, guer­rieri e malan­drini, tutte noi crea­ture di quella realtà ecces­siva abbiamo dovuto chie­dere molto poco all’immaginazione, per­ché la sfida mag­giore per noi è stata l’insufficienza delle risorse con­ven­zio­nali per ren­dere cre­di­bile la nostra vita. È que­sto, amici, il nodo della nostra solitudine. (…)

L’America Latina non vuole essere una pedina senza libero arbi­trio, e non c’è ragione per­ché lo sia. E non ha nulla di chi­me­rico il fatto che i suoi pro­po­siti  d’indipendenza e ori­gi­na­lità diven­tino un’aspirazione dell’Occidente. Ciò nono­stante, i pro­gressi della navi­ga­zione che hanno tanto ridotto le distanze fra le nostre Ame­ri­che e l’Europa sem­brano invece averne aumen­tato la distanza cul­tu­rale. Per­ché l’originalità che ci viene rico­no­sciuta senza riserve nella let­te­ra­tura ci viene negata con ogni tipo di sospetti nei nostri dif­fi­ci­lis­simi ten­ta­tivi di cam­bia­mento sociale? Per­ché pen­sare che la giu­sti­zia sociale che gli euro­pei d’avanguardia ten­tano di imporre nei pro­prio paesi non possa essere anche un obiet­tivo lati­noa­me­ri­cano con metodi diversi in con­di­zioni dif­fe­renti? No: la vio­lenza e il dolore smi­su­rati della nostra sto­ria sono il risul­tato di ingiu­sti­zie sco­lari e ama­rezze ine­nar­ra­bili, e non una con­giura ordita a tre­mila leghe da casa nostra. Tut­ta­via, molti diri­genti e pen­sa­tori euro­pei lo hanno cre­duto, con l’infantilismo dei nonni che hanno dimen­ti­cato le pro­fi­cue fol­lie della loro gio­vi­nezza, come se non fosse pos­si­bile altro destino se non quello di vivere alla mercé dei due grandi padroni del mondo. È que­sta, amici, la dimen­sione della nostra soli­tu­dine. E tut­ta­via, di fronte all’oppressione, al sac­cheg­gio e all’abbandono, la nostra rispo­sta è la vita. Né i diluvi né le pesti­lenze, né le care­stie né i cata­cli­smi, e nem­meno le guerre eterne attra­verso i secoli dei secoli sono riu­sciti a ridurre il tenace van­tag­gio della vita sulla morte. (…)

In un giorno come quello di oggi il mio mae­stro Wil­liam Faul­k­ner disse in que­sta sala: «Mi rifiuto di ammet­tere la fine dell’uomo». Non mi sen­ti­rei degno di occu­pare que­sto posto che fu suo se non fossi pie­na­mente con­sa­pe­vole che, per la prima volta dall’inizio dell’umanità, il colos­sale disa­stro che egli si rifiu­tava di ammet­tere tren­ta­due anni fa è ora sol­tanto una sem­plice pos­si­bi­lità scien­ti­fica. Di fronte a que­sta scon­vol­gente realtà che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta sem­brare un’utopia, noi inven­tori di rac­conti, che cre­diamo a tutto, ci sen­tiamo in diritto di cre­dere che non sia troppo tardi per ini­ziare a creare l’utopia con­tra­ria. Una nuova e impe­tuosa uto­pia della vita, in cui nes­suno possa deci­dere per gli altri per­fino sul modo di morire, dove sia dav­vero reale l’amore e sia pos­si­bile la feli­cità, e dove le stirpi con­dan­nate a cent’anni di soli­tu­dine abbiano, final­mente e per sem­pre, una seconda oppor­tu­nità sulla Terra.

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