Antonio Melis

Intorno alla seconda metà degli anni Ses­santa del secolo scorso uno tra i grandi temi del dibat­tito let­te­ra­rio inter­na­zio­nale ruo­tava intorno alla morte del romanzo. Ma nella remota Colom­bia, tagliata fuori dai cir­cuiti uffi­ciali, non era ancora arri­vata noti­zia delle ese­quie di que­sto grande genere let­te­ra­rio della società bor­ghese, sulla cui defi­ni­zione si erano cimen­tati illu­stri teo­rici, da Hegel, fino a Lukács e a Goldmann.

Fu così che uno scrit­tore ormai vicino ai quarant’anni si per­mise di pub­bli­care nel 1967 un romanzo tito­lato Cent’anni di soli­tu­dine, dopo altre prove nar­ra­tive note­voli, rima­ste cir­co­scritte a un pub­blico ridotto e che sareb­bero state recu­pe­rate solo suc­ces­si­va­mente, per l’effetto trai­nante del suc­cesso cla­mo­roso di quel testo. Romanzi come Foglie morte (La hoja­ra­sca), Nes­suno scrive al colon­nello, La mala ora e rac­colte di rac­conti come I fune­rali della Mama Grande, veni­vano letti come momenti pre­pa­ra­tori di una grande sin­tesi, ma anche apprez­zati nel loro valore autonomo.

Ho ricor­dato quella con­giun­tura cul­tu­rale, pro­prio per­ché il «segreto» di Gar­cía Már­quez è stato, in fondo, abba­stanza sem­plice. Igno­rando le sofi­sti­cate elu­cu­bra­zioni delle teo­rie cri­ti­che à la page, lo scrit­tore colom­biano aveva risco­perto l’elementarità e l’universalità del gusto di rac­con­tare una storia.

Del resto, la strut­tura del suo romanzo poteva richia­mare le saghe, da quelle anti­che al modello con­tem­po­ra­neo offerto dai romanzi di Wil­liam Faul­k­ner. Ma poteva con la stessa legit­ti­mità, per un altro tipo di let­tori, evo­care – por­tan­dole a un livello let­te­ra­rio raf­fi­nato – le sug­ge­stioni della tele­no­vela, con il suo gusto per la pro­li­fe­ra­zione infi­nita dei per­so­naggi. Da que­sto sin­go­lare con­nu­bio di alto e basso era sca­tu­rito un auten­tico mira­colo: riu­nire in tutto il mondo, intorno alle sue pagine, il let­tore colto e quello ingenuo.

A par­tire da allora intere biblio­te­che sono state scritte su quel romanzo e in gene­rale sull’opera di Gar­cía Már­quez, soprav­vis­suta glo­rio­sa­mente a quel bom­bar­da­mento a tap­peto. Uno tra gli omaggi più caldi e pro­fondi tri­bu­tati al suo capo­la­voro sta in alcune righe che gli dedicò, a ridosso della pub­bli­ca­zione, un altro grande scrit­tore ispa­noa­me­ri­cano della gene­ra­zione ante­riore, José María Argue­das, nel suo ultimo romanzo, La volpe di sopra e la volpe di sotto, rima­sto incon­cluso per il colpo di pistola con il quale l’autore pose fine alla sua vita.

Nel primo dei «Diari» che si alter­nano con la nar­ra­zione c’è una sorta di resa dei conti, spesso aspra, con i suoi col­le­ghi lati­noa­me­ri­cani che sta­vano costruendo quello splen­dido epi­so­dio di libe­ra­zione cul­tu­rale, che sarebbe poi stato mala­mente chia­mato «boom». Ecco come Cent’anni di soli­tu­dine viene salu­tato: «Non par­le­rebbe così quel Gar­cía Már­quez che asso­mi­glia molto a donna Car­men Tari­pha, di Maran­ganí, presso Cuzco. Car­men rac­con­tava al prete, di cui era per­pe­tua, sto­rie inter­mi­na­bili di volpi, dan­nati, orsi, bisce, ramarri; imi­tava que­gli ani­mali con la voce e con il corpo. Li imi­tava così bene che la sala della cano­nica si tra­sfor­mava in caverne, in boschi, in pune e gole dove risuo­na­vano lo stri­sciare della serpe che fa muo­vere piano le erbe e gli stec­chi, il par­lare della volpe un po’ scher­zoso e un po’ cru­dele, quello dell’orso che è come se avesse della farina impa­stata in bocca, quella del topo che taglia con il suo filo anche l’ombra; e donna Car­men cam­mi­nava come una volpe e come un orso, e muo­veva le brac­cia come una serpe e come un puma, faceva anche il movi­mento della coda; e rug­giva pro­prio come i dan­nati che divo­rano gente senza mai saziarsi; così la sala della cano­nica era qual­cosa di simile alle pagine di Cent’anni…».

In Ita­lia il suc­cesso del romanzo, tra­dotto tem­pe­sti­va­mente, fu imme­diato, seb­bene non man­cas­sero feno­meni di incom­pren­sione da parte di intel­let­tuali, anche illu­stri, ma legati ine­so­ra­bil­mente agli schemi euro­cen­trici, che non capi­rono come Gar­cía Már­quez facesse irrom­pere un mondo let­te­ra­rio irri­du­ci­bile a cri­teri di giu­di­zio ela­bo­rati a par­tire da un altro contesto.

L’appropriazione inde­bita avvenne anche attra­verso l’impiego quasi osses­sivo di cate­go­rie come quella del «rea­li­smo magico», desti­nata ad avere un grande suc­cesso e quindi ad agire nega­ti­va­mente non solo sui let­tori, ma addi­rit­tura sugli stessi scrit­tori ispa­noa­me­ri­cani più gio­vani, molti dei quali comin­cia­rono a caval­care astu­ta­mente l’onda del suc­cesso, offrendo spesso pro­dotti ste­reo­ti­pati che veni­vano incon­tro all’eterno biso­gno di eso­ti­smo del mondo ege­mo­nico. La let­te­ra­tura ispa­noa­me­ri­cana aveva già anni prima creato un pos­si­bile anti­doto per que­sti frain­ten­di­menti, attra­verso la cate­go­ria del «reale mera­vi­glioso» enun­ciata dal cubano Alejo Car­pen­tier nel pro­logo al suo straor­di­na­rio romanzo Il regno di que­sto mondo, ambien­tato ad Haiti negli anni della rivolta della popo­la­zione afri­cana che aveva dato vita al primo stato indi­pen­dente dell’America cosid­detta Latina. Dopo essere pas­sato, come altri grandi scrit­tori di quell’area, attra­verso l’esperienza sur­rea­li­sta pari­gina, Car­pen­tier aveva capito che nell’abnormità dei feno­meni lati­noa­me­ri­cani, da quelli fisici a quelli sociali, c’era una fonte pro­pria di mera­vi­glia che ren­deva obso­lete le ricette intel­let­tua­li­sti­che pro­dotte nel vec­chio continente.

Capii tutta la por­tata di quella dichia­ra­zione d’indipendenza (non di autar­chia) quando, pochi anni dopo l’uscita di Cent’anni di soli­tu­dine, nel mio primo viag­gio in Colom­bia, potei con­sul­tare nelle eme­ro­te­che i gior­nali degli anni Venti, dove si rife­ri­vano i mas­sa­cri della com­pa­gnia bana­nera che com­pa­iono nel romanzo, e che erano stati rece­piti dalla cri­tica e, più ovvia­mente, dal pub­blico, come pura inven­zione let­te­ra­ria, par­to­rita dai nuovi bestioni vichiani, tutti senso, stu­pore e fan­ta­sia. Non voglio pro­porre, è ovvio, un banale prin­ci­pio di vero­si­mi­glianza, ma indi­care un esem­pio par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivo della dia­let­tica fra sto­ria e crea­zione let­te­ra­ria che sta alla base di Cent’anni di soli­tu­dine e che spiega le sue mol­te­plici pos­si­bi­lità di let­tura, come suc­cede con tutti i testi vera­mente grandi.

L’opera di Gar­cía Már­quez è pro­se­guita fino alla vec­chiaia, fra romanzi, rac­conti, cro­na­che e memo­rie, con risul­tati alterni. Come in altri scrit­tori della sua gene­ra­zione, che hanno sfrut­tato la loro ren­dita di posi­zione, il mestiere sem­pre più raf­fi­nato è pre­valso molte volte sull’autentica inven­zione. Vale anche, seb­bene a molti suo­nerà come una bestem­mia, per la sua prova più ver­ti­gi­nosa dal punto di vista dell’impegno sti­li­stico, l’ingegnoso e soprav­va­lu­tato L’autunno del patriarca, un testo più adatto agli eser­cizi funam­bo­lici della cri­tica e alle tesi dot­to­rali che al godi­mento del let­tore. Ma baste­rebbe la grande saga di Macondo, capace meri­ta­ta­mente di rino­mi­nare il paese di nascita di Gar­cía Már­quez, a garan­tire allo scrit­tore un posto nella let­te­ra­tura desti­nata a durare nel tempo, oltre le mode edi­to­riali e quelle create dalla critica.

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