L’Altra Europa che vorremmo. Intervista a Barbara Spinelli
di Manuela Caserta
C’è un video che rimbalza in rete nelle ultime ore, “Quelli che litigano per Tsipras: ma i leninisti curdi non sono in lista” https://www.youtube.com/watch?v=nkNcHPS3…) che si prende ironicamente gioco delle critiche mosse negli ultimi giorni, su stampa e social network, da autorevoli influencer e giornalisti di calibro come Michele Serra o Vittorio Zucconi, in merito alle polemiche sorte intorno alle candidature della lista L’Altra Europa.
Nelle ultime settimane ci sono state alcune rinunce, e anche una lapidaria scomunica dei comunisti italiani per il mancato inserimento nella lista di suoi referenti. Intanto, un sondaggio Ixè sulle intenzioni di voto, vede L’Altra Europa in crescita, al quarto posto dopo PD, Forza Italia e Movimento 5 Stelle, e la raccolta firme sta decollando. La lista è composta anche da molti giovani competenti, e se si guarda ai contenuti finora quello di Tsipras, è l’unico programma veramente rivoluzionario contro le politiche di austerity applicate dall’Europa. Politiche che la Merkel ha di fatto ribadito anche nell’ultimo incontro con il nostro giovane premier.
Perché un giovane al suo primo voto per le Europee, dovrebbe scegliere L’Altra Europa di Tsipras? Barbara Spinelli, scrittrice ed editorialista di Repubblica, fautrice e principale riferimento del gruppo di intellettuali che gravitano intorno al manifesto Tsipras, spiega qui la sua visione di Europa, esplicando alcuni dei punti principali del programma
Perché è importante sostenere Tsipras alle prossime elezioni europee?
È importante perché è l’unica lista che propone un’alternativa alle politiche che si stanno facendo da anni, e alla paralisi che regna nell’Unione da quando i capi di governo hanno fatto nascere l’euro, dimenticandosi per strada l’unione effettiva e i piani di sostegno reciproco che avrebbero dovuto puntellarlo. Dimenticandosi, anche, di garantire alla Banca centrale europea non solo l’autonomia dai governi, ma anche il potere di divenire prestatore di ultima istanza, come avviene negli Stati Uniti o in Inghilterra, e di favorire la nuova ripresa sostenibile, ecologicamente sana, di cui il nostro continente ha oggi disperato bisogno. In realtà siamo davanti a due forti correnti che sembrano antagoniste, sembrano combattersi l’un l’altra, ma sono in realtà profondamente complici.
La prima corrente è grosso modo contenta di come le cose stanno in Europa, anche se è consapevole che alcuni aggiustamenti sono necessari: l’unione bancaria, il Fondo salva-Stati, lo stesso Trattato di Lisbona furono tentativi di compiere piccoli progressi. Progressi che si sono rivelati completamente insufficienti. L’epoca dei «piccoli progressi», del cosiddetto gradualismo, è finita e urge prenderne atto e dirlo a voce alta.
La seconda corrente è stanca dell’Europa, in parte perché disillusa e indignata, in parte perché mai è stata convinta che l’unificazione del continente, e la diminuzione dei poteri sovrani dei suoi Stati, fossero una cosa auspicabile. Non è priva di sogni e speranze di cambiamento, questa seconda corrente, ma sia il sogno che il cambiamento sono del tutto illusori: già dal dopoguerra, e più che mai oggi in un mondo globalizzato, i classici Stati-nazione hanno perso la propria sovranità. Propugnare il ritorno alla vecchia sovranità significa fingersi re di piccoli staterelli e mettersi, nel fatti, in mano ai mercati internazionali. Ambedue le forze sono fondamentalmente conservatrici.
La via della lista Tsipras punta a salvare l’idea di Europa – cioè di una potenza superiore agli Stati che la compongono, in grado di restituire loro la sovranità che hanno perduto – ma cambiando l’Unione in modo radicale, facendo capire che i cittadini vogliono rivoluzionarla addirittura. L’Europa deve darsi finalmente una Costituzione, che sia scritta dai popoli e dunque dal Parlamento europeo. Deve mettere insieme risorse finanziarie sufficienti per avviare un Piano Marshall di ripresa che sia fondato sulla solidarietà piena tra gli Stati più deboli e quelli più forti. Il sindacato tedesco (DGB) lo propone da tempo. Alexis Tsipras l’ha fatto proprio.
Infine l’euro: se non funziona è perché manca, a suo fianco, un governo europeo forte, non dominato da questo o quello Stato ma indipendente dagli Stati in modo da non privilegiarne o svantaggiarne nessuno. E non funziona, l’euro, perché manca un controllo democratico su quel che si fa in nome dell’Unione. Il che vuol dire: un Parlamento europeo che legiferi davvero, che sia ascoltato, e che acquisisca anche potere impositivo. La tassa sulle transazioni finanziarie e quella sulle emissioni di anidride carbonica (carbon tax) dovrebbero essere di sua competenza, in un’Europa veramente federale. Dalla crisi delle economie nazionali e della moneta unica si esce insomma con più Europa, cambiata alle radici.
Secondo il Trattato di Lisbona con il 2014 è entrato in vigore il metodo decisionale della doppia maggioranza, cosa cambia negli equilibri di potere?
Quel che è mutato con il Trattato di Lisbona non è (se non in misura modesta) il peso relativo dei singoli Stati membri nelle votazioni a maggioranza del Consiglio dei Ministri (per il Consiglio europeo vale tuttora la regola del cosiddetto “consenso”, che include il potere di veto se c’è un dissenziente) ma piuttosto il principio per il quale si valuta la popolazione europea. Oltre al sì di un numero di governi pari ad almeno il 55% degli stati membri, si considera la popolazione complessiva dell’Unione, cioè occorre che i 16 governi rappresentino una popolazione di almeno il 65% della popolazione intera dell’Unione: il che significa considerare la popolazione dell’Unione come un tutto, potenzialmente come un solo popolo. È un punto di principio rilevante. Inoltre la minoranza di blocco dovrà comprendere almeno quattro governi.
Cosa hanno prodotto in Grecia le misure di austerity imposte dall’Europa?
Hanno prodotto una caduta nella povertà spaventosa. Un numero sempre più grande di cittadini greci ha passato l’inverno senza elettricità. Mancano i medicinali, o costano troppo. Sono aumentati i suicidi. La mortalità infantile è cresciuta del 45 per cento, come confermato dalla prestigiosa rivista medica Lancet. Ma soprattutto, le politiche di austerità hanno prodotto un’Unione che non possiamo onestamente più chiamare tale: oggi, se la guardiamo da vicino, è di una Dis-Unione che dobbiamo parlare. Non c’è solo quello che chiamano, un po’ fatuamente e mescolando insoddisfazioni e rifiuti manifestati dai cittadini, euroscetticismo. C’è una profonda ostilità fra i popoli di quella che una volta, molto più ambiziosamente, si denominava Comunità. Ostilità di molti cittadini del Sud verso i tedeschi, e ostilità dei tedeschi verso paesi che spregiativamente vengono battezzati «periferie».
Questa crisi ha prodotto numerosi euroscettici che si chiedono perché non possiamo fare come la Gran Bretagna che grazie ad alcune “clausole di esclusione” sui trattati, riesce a mantenere un margine di autonomia sulle politiche economiche. Come spiegare loro che ci vuole più Europa e non meno Europa?
Non è vero che riescono a mantenere margini di autonomia. Sono solo direttamente dipendenti dai mercati internazionali. Non dispongono della protezione, delle garanzie, che l’Unione europea può offrire, per arginare gli effetti negativi della globalizzazione. La Gran Bretagna, grazie anche alla politica di Tony Blair, consistente in una completa subordinazione agli Stati Uniti, conta sempre di meno nel mondo.
La prima cosa da riformare in Europa?
Primo: il ruolo del Consiglio dei ministri e il diritto di veto che esiste al suo interno. Il potere del Consiglio va ridotto drasticamente, e il diritto di veto – mortifero per qualsiasi istituzione- va tolto di mezzo perché impedisce all’Unione di decidere, di programmare azioni di lungo periodo, dunque di esistere. Secondo: il Piano Marshall per l’Unione cui accennavo sopra. La possibilità per i popoli di farsi sentire in questi campo c’è: fra poco tempo partirà un’iniziativa dei cittadini europei, predisposta dai movimenti federalisti e da numerose associazioni della società civile, che basandosi su un diritto codificato dal trattato di Lisbona (articolo 11) raccoglierà le firme in tutta Europa perché l’Unione lanci un «Piano Straordinario per lo Sviluppo sostenibile e per l’Occupazione», da finanziare con la tassa sulle transazioni finanziarie, la tassa sull’emissione di carbonio e le risorse della Banca europea di investimenti.
Cosa cambierebbe nel futuro dei giovani europei sostenendo Tsipras?
Qualcosa si muoverebbe. Solo il fatto che un’alternativa sia possibile, alle condotte sin qui seguite dai governi europei, è segno di cambiamento. Finirebbe l’incubo del «non c’è alternativa» allo stato presente. Una presenza forte di chi la pensa come Tsipras, nel Parlamento europeo che nascerà dalle urne nel maggio prossimo, potrebbe impedire l’ennesima Grande Coalizione fra socialisti e Popolari europei. Una Grosse Koalition che ha trasformato il Parlamento europeo in un organo debole, corrivo verso gli stati più potenti, intimidito. Basti ricordare che una protesta contro la troika e le sue pratiche (l’organismo che ha controllato direttamente i conti in quattro Stati dell’eurozona, composto da Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario) si è fatta viva solo questo 13 marzo, con due risoluzioni, a pochi mesi dalle elezioni. Meglio tardi che mai, ma quanto tardi e con quante remore!
Fonte: caserta.blogautore

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