di Piera Lombardi

Che il protagonista, lo schiavo gladiatore Milo, abbia il nome del salone di parrucchiere sotto casa è il male minore, ma resta una coincidenza significativa perché sembra più personaggio da rotocalco femminile di cui chiacchierare tra una tinta e una piega che da accorta rivisitazione storica. Pompeii, film da poco uscito nelle sale italiane diretto dal regista americano Paul Andersen, coproduzione Usa-Germania, è un fumettone catastrofico sull’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. O meglio sfrutta la celebre eruzione narrata da Plinio per far piovere sugli spettatori non le polpette dell’omonimo cartone ma lapilli posticci e ruffiani oltre alla sovrabbondanza di effetti speciali, rintracciabili persino in modalità non tridimensionale, nel reale disinteresse o ignoranza, o tutte e due insieme, della storia di Pompei sotto il regno di Vespasiano.

Il movie potrebbe ricevere un riconoscimento speciale in quanto a bruttezza, cattivo gusto, furberia, schematismo e dozzinale rappresentazione degli antichi romani (o lottano o corrompono o sono corrotti o tentano di accaparrarsi donne quali trofeo o si danno a ozi) per non dire assenza di qualsivoglia parametro scientifico nella ricostruzione storica. Il Vesuvio, dal canto suo, potrebbe chiedere (e ottenere) un risarcimento danni per sfruttamento intensivo della propria immagine a favore di suddetta americanata. Qui siamo infatti in un sequel kitsch, niente a che vedere con i Kolossal americani di altre epoche, altro calibro, quali Quo Vadis (1951), Ben Hur (1959) Cleopatra (1963) che avevano dalla loro ossatura, profilo estetico e tematico.

Nonostante l’irritazione che contraddistingue la visione del drammone sciatto che emula Il Gladiatore e altri film ambientati nell’antica Roma tra reminiscenze di Rocky Rambo e persino qualcosa de il Titanic per via della storia d’amore impossibile tra lo schiavo Milo e l’aristocratica Cassia, il film suo malgrado ha il pregio involontario di indurre a riflettere, quindi di dare risalto e fare pubblicità a Pompei, il sito archeologico più grande del mondo. Induce a riflettere perché pare dare piena ragione alla faccenda del pane e dei denti che non è materia odontoiatrica.

"Chi ha pane non ha denti"
L’adagio dice che chi ha pane non ha denti e viceversa. Gli americani, o perché sono sempre stati attratti sia pure per attualizzarlo dal mondo romano antico, o perché amano le catastrofi che poi amano esasperare per renderle ancor più catastrofiche, o perché il binomio mondo antico catastrofe naturale è una bomba che fa tracimare gli incassi, ci obbligano a fare mea culpa sul patrimonio vesuviano e non. Loro hanno sfornato un calco ridondante e fittizio di un’antica tragedia italica, noi i calchi di chi imprigionato sotto la cenere non riuscì a salvarsi li lasciamo all’incuria come gli edifici di Pompei: oltre all'ultimo crollo di pochi giorni fa, a dicembre è franato il muro di una bottega di via Stabiana e si sono sgretolati gli stucchi di una domus. D’accordo: la vicenda è complessa e articolata e non la si risolve con approssimativi predicozzi da articolo eticheggiante. Si può osservare però che a vario titolo e con intenti differenti altrove, non solo gli americani, utilizzano i tesori di casa nostra realizzando il binomio non solo possibile ma riuscitissimo affari/cultura.

Prima che dal Vesuvio lo sterminio arriva dall'inerzia
Ha fatto scalpore la mostra da record allestita al British Museum di Londra per sei mesi, sponsorizzata da Goldman Sachs dedicata a raccontare ‘Vita e morte a Pompei ed Ercolano’: retrospettiva spettacolare e senza precedenti, che ha fatto incassare al museo 11 milioni di euro. Anche questa una forma di pubblicità, si dirà ai siti archeologici vesuviani.

Già ma fa una certa impressione constatare che tutto ciò che era esposto in quella riuscitissima mostra, 450 manufatti, è stato prestato dalla Sovrintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli, Pompei, Ercolano e Stabia: celebri affreschi, utensili, mobili, oggetti d’uso quotidiano, insomma il meglio del museo archeologico di Napoli ma anche pezzi accatastati nei depositi nostrani. Magari gli stessi italiani si sono decisi a scoprire tali magnificenze solo perché erano a Londra! In contemporanea a questa, c’è stata un’altra mostra organizzata a Bologna ‘Davvero!

La Pompei di fine ’800 nella pittura di Luigi Bazzani’ che ha messo a confronto quadri del vedutista che ritraggono le rovine pompeiane con foto contemporanee delle stesse. Emerge certo un’antica storia di danni subiti da Pompei già visibili nell’800 ma il declino attuale è senza precedenti. Ciò che non ha fatto lo ‘sterminator’ Vesuvio lo fa l’inerzia istituzionale e la follia burocratica.

Invece Londra non ha mollato la presa della ‘gallina’ pompeiana: dopo la mostra il British Museum ha prodotto e realizzato anche un documentario tridimensionale (Life and Death in Pompeii and Herculaneum) per la regia dello stesso direttore del museo, Neil MacGregor. Vi immaginate un direttore di un nostro museo o soprintendente che si mette alla regia?

Un libero paese in libera svendita
La ricostruzione multimediale di Pompei ed Ercolano di duemila anni fa, costata poco più di centomila euro, porta i visitatori lungo le strade romane, nelle case con ingresso atrio, camera da letto, cucina , sala da pranzo, salotto e giardino, consente di interagire con i famosi calchi di chi rimase imprigionato dal calore vulcanico e con gli oggetti della loro vita quotidiana. La città sepolta è valorizzata all’estero perché considerata un affare che si vende bene oltre che una meraviglia. È in chiusura una mostra a Monaco di Baviera su ‘Pompeii, Life on the Vulcano’ che ricostruisce gli aspetti della vita quotidiana Pompei ed Ercolano dall’età del bronzo all’eruzione del 79 d. C. con 260 reperti tra sculture, statue, gioielli, mosaici.

Ma la Soprintendenza ai beni archeologici di Napoli e Pompei ha collaborato anche a organizzare analoghe mostre ospitate a Madrid e a Filadelfia (quest’ultima visitabile fino al 27 aprile 2014 si intitola ‘One day in Pompeii’). Si dirà che con tutta questa attività la nostra Soprintendenza ha incassato royalties e altre ne incasserà in vista di una mostra a settembre ad Amburgo. Ma sarebbe così oltraggioso trarre noi il principale profitto dai tesori di casa anziché esportarli a supporto delle fortune altrui? Non sarebbe ora di realizzare una rete attrattiva di qualità che inglobi oltre a Pompei ed Ercolano il museo archeologico di Napoli, il museo di Baia, le ville di Stabia, i siti ‘minori’ dei Campi Flegrei? È così remota l’idea di attuare marketing territoriale culturale di livello? Come di puntare sulla cultura per rilanciare l’economia nazionale?

I musei americani contribuiscono direttamente ogni anno all'economia nazionale con 21 miliardi di dollari, generando ulteriori introiti indiretti e oltre 400 mila posti di lavoro. È un dato recente che emerge da uno studio dell'American Alliance of Museums. Fantascienza per l’Italia che a dispetto del suo patrimonio non sta al pari complessivamente con i risultati registrati singolarmente da grandi musei come il Louvre o il Metropolitan di New York. Basti pensare che nel 2012 i nostri 424 istituti statali hanno prodotto un introito complessivo lordo di poco più di €113 milioni, grazie soprattutto a Lazio, Campania e Toscana.

Intanto nell’ambito del grande progetto Pompei che dovrebbe essere completato entro dicembre 2015 che prevede la messa in sicurezza del sito archeologico sono stati impiegati appenai 40 dei 105 milioni messi a bilancio con l’apertura di 5 cantieri. Pare che la salvezza però arriverà: non dal cielo ma dal Kuwait. Lo Sceicco Ali Khaled Al-Sabah, da quattro mesi ambasciatore dello stato arabo ha annunciato che è pronto a finanziare la valorizzazione e tutela del parco archeologico campano come Diego Della Valle farà per il Colosseo. E pazienza se magari ciò avverrà in cambio di qualche trivellazione. Siamo un libero paese in svendita, altro che Milo e gli schiavi traci!

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