2014: dal Principe al Princeps
di Giovanni Corazzi
L’inizio del nuovo anno segna anche il passaggio del testimone di due importanti ricorrenze culturali: se nel 2013 è caduto il cinquecentenario della stesura del Principe di Machiavelli, il 2014 è l’anno del bimillenario della morte del Princeps Augusto, il primo imperatore di Roma, il protagonista indiscusso della “rivoluzione romana” del I secolo a.C., e cioè del turbolento e drammatico passaggio dalla Res Publica all’Impero. A dire il vero, una rivoluzione travestita, ambigua e non rivendicata proprio da Augusto, il quale, ormai da padrone assoluto di Roma, dichiarava solennemente di aver rifondato la secolare Repubblica. A questo proposito, è stato acutamente osservato in sedi diverse (Filippo Coarelli; Lorenzo Braccesi) che al potere augusteo potrebbe ben riferirsi la celebre massima de Il Gattopardo, tuttavia rovesciata: “Perché tutto cambi, bisogna che tutto rimanga com’è”. Comunque, nonostante l’apparente conservazione, Augusto stesso, abbattuto l’ancien régime e superata l’interminabile e sanguinosa stagione delle guerre civili, amava presentarsi come il solo che fosse riuscito a inaugurare una nuova età dell’oro, una nuova fase di prosperità, pace, concordia, valori tanto cantati in quel tempo dai letterati della corte del raffinato Mecenate, primi fra tutti Virgilio e Orazio.
Nato a Roma, sul Palatino, come Caius Octavius, assunto il nome di Caius Iulius Caesar (Octavianus) dopo l’adozione da parte del prozio Cesare (settembre 45 a.C.), di cui assunse l’eredità appena diciannovenne (44 a.C.), e, infine, divenuto (dal 16 gennaio 27 a.C.), nella nomenclatura ufficiale, imperator Caesar Augustus, il nostro morì in quel di Nola il 19 agosto del 14 d.C., qualche giorno prima del suo settantasettesimo compleanno, dopo 41 anni di ininterrotto regno (27 a.C.-14-d.C.), lasciando ai suoi successori un impero che si estendeva su tutto il bacino del Mediterraneo e una città assai diversa, nell’arte, nella politica, nella cultura, rispetto a quella in cui si era trovato a nascere nel 63 a.C., l’anno della congiura di Catilina e del consolato di Cicerone. Dunque, una vita lunga, sia politicamente (il regno più duraturo della storia di Roma) che anagraficamente, tanto che tornare con la memoria alle ricorrenza dell’opposto bimillenario significa per noi un recupero “archeologico” di un’altra Italia, come ha sottolineato lo storico Andrea Giardina. I duemila anni dalla nascita caddero infatti nel 1937, in pieno ventennio. Il regime non si lasciò sfuggire l’occasione, naturalmente con il fine di celebrare le proprie glorie. Venne così allestita nella capitale, al Palazzo delle Esposizioni, la Mostra augustea della Romanità, inaugurata proprio il giorno 23 settembre, genetliaco dell’imperatore, e aperta al pubblico fino al 23 settembre del 1938 (Luciano Canfora, -Corriere della Sera. La Lettura, 6/10/2013, p. 4 - ha ricordato la coincidenza tra la conclusione dell’evento e la promulgazione delle leggi razziali). Una mostra in realtà dedicata non solo ad Augusto, la cui celebre statua loricata, rinvenuta nella villa di Livia a Prima Porta presso Roma (20 aprile 1863), costituiva il manifesto dell’iniziativa, ma in generale alla civiltà romana antica e alla sua diffusione nel mondo allora conosciuto. Come viene ancora oggi sostenuto, un evento senza dubbio di rilievo, sia a livello scientifico che divulgativo: si pensi solo al plastico della Roma costantiniana realizzato, nell’ambito dell’allestimento della mostra, dall’architetto Gismondi e oggi conservato al Museo della Civiltà Romana, in cui per altro sono confluiti i calchi realizzati in occasione dell’esposizione. Essa, tuttavia, neanche a dirlo, nasceva come mostra “politica” e così risultò profondamente segnata da quella tendenza tipica delle dittature a utilizzare la storia per fini propagandistici: in questo caso, l’esaltazione del regime si attuava con una strumentale sovrapposizione tra passato e presente, tra romanità e fascismo, tra imperatore e duce. Significativo che una sezione della mostra (XXVI) venisse intitolata Immortalità dell’idea di Roma, la Rinascita dell’Impero nell’Italia fascista (pag. 362 e segg. del corposo catalogo). A tal riguardo, è il caso di ricordare che nel maggio del 1936, dopo 7 mesi di guerra coloniale condotta contro un’Etiopia sconfitta da bombardamenti a grappoli e gas letali, Mussolini aveva enfaticamente proclamato «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» (Discorso per la proclamazione dell’Impero). Dunque, Mussolini come Augusto, fondatore dell’impero. Con questo passaggio storico - seguito tra l’altro dalla partecipazione delle camicie nere alla guerra civile spagnola in sostegno di un altro capo assoluto e in una terra in cui Augusto, grazie anche ad Agrippa, aveva consolidato il dominio romano con due campagne militari (26-25 a.C.; 19 a.C.) - nella galleria fascista dei summi viri il posto principale spettava non più al “sovversivo” Cesare, modello di riferimento delle prime fasi, ma al “restauratore” (apparente) Augusto, la cui prudenza si allontanava di molto dalla pericolosa radicalità del padre adottivo e ben si attagliava ad un fascismo che, divenuto ormai solido regime dopo gli inizi “ribelli”, voleva assumere il volto della conservazione.
Nella cultura del nostro tempo, il mito della romanità è venuto meno e, più in generale, l’uso politico della storia si è fatto meno esplicito. In riferimento ad Augusto, sia la divulgazione che la ricerca scientifica hanno delineato ormai da moltissimo tempo un ritratto senza miti, secondo una virtuosa tendenza riscontrabile già in testi proprio degli anni ’30 del XX secolo, quali i fondamentali Ottaviano capoparte di Mario Attilio Levi (1933) o The Roman revolution di Ronald Syme (1939), pubblicato in Italia solo nel 1962 da Einaudi. Il bimillenario della morte, lontano il benché minimo cedimento alla retorica, costituisce dunque l’occasione per una analisi del personaggio Augusto che cerchi di essere esaustiva e obiettiva, evitando - per quanto possibile - di applicare a questioni antiche le categorie interpretative moderne e contemporanee.
Proprio a questo fine concorrono eventi come la mostra monografica Augusto (curata da Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger) in corso alle Scuderie del Quirinale, mostra che è stata inaugurata dal Presidente della Repubblica il 18 ottobre e che terminerà il 9 febbraio prossimo. L’esposizione è la seconda in Italia dedicata al princeps, appunto dopo quella del 1937-38: giustamente Francesca De Caprariis (Alias Domenica, 29 dicembre 2013, p. 8) ha parlato di “ombre lunghe” proiettate dall’evento fascista. Comunque, è questo un periodo in cui la prima età imperiale riscuote molto successo: al Getty Museum di Los Angels è in corso fino al tre marzo 2014 un’esposizione che, prendendo spunto da una statua raffigurante Tiberio e in prestito dal Museo Archeologico di Napoli, è dedicata proprio al successore di Augusto: Tiberius, portrait of an emperor.
La mostra alle Scuderie rappresenta certamente un’iniziativa di notevole importanza: essa offre alla pubblica visione circa 200 oggetti (sculture, bronzi, terrecotte, monete, gemme, cammei, gioielli) articolati, come ricorda l’ideatore della mostra Eugenio La Rocca, a pag. 54 del bel catalogo edito da Electa, non per generi, ma in base allo sviluppo cronologico del potere augusteo - dal tramonto della repubblica all’apoteosi dell’imperatore – così da fornirne un quadro unitario. A partire dal marzo del 2014, la mostra, nata da una coproduzione italo-francese, si trasferirà alla galleria del Grand Palais di Parigi, dove rimarrà fino al 13 luglio (www.grandpalais.fr/fr/evenement/moi-auguste-empereur-de-rome). L’esibizione parigina rispetto a quella romana, in cui sono in pratica escluse l’architettura e la pittura, si caratterizzerà per alcune differenze, con «una maggiore offerta di riferimenti all’urbanistica e all’edilizia monumentale di Roma antica» (pag. 48 del catalogo), per un pubblico, quello francese, che meno conosce, com’è ovvio, i luoghi archeologici dell’Urbe. Inoltre, uno sguardo più ampio sarà gettato sul mondo provinciale, con particolare riferimento alla Gallia.
E’ noto come uno degli strumenti più efficaci impiegati da Augusto nell’affermazione e nel consolidamento della propria auctoritas – sostanzialmente una monarchia – siano state quelle arti figurative di cui l’archeologo tedesco Paul Zanker, nel celebre saggio Augusto e il potere delle immagini, ha ben messo in evidenza l’importanza e sulle quali è di fatto incentrato l’evento alle Scuderie, che, come è stato giustamente osservato (sempre da Francesca De Caprariis), ponendo il suo focus sulla cultura artistica (per lo più, inoltre, di carattere urbano) trascura, forse scientemente, l’altra grande “arma augustea”, e cioè i documenti letterari ed epigrafici. Del resto, di recente è stato a ragione sostenuto che, a partire dai soli ritratti di Augusto, «si potrebbe scrivere una storia dell’arte del suo tempo e dei messaggi che si volevano comunicare tramite questo mezzo» (Bernard Andreae, Figure dell’arte imperiale, Jaca Book, p. 49). Effettivamente, i ritratti dedicati ad Ottaviano/Augusto dovevano essere veramente molti e diffusi in tutto le aree dell’Impero, sia in nella sfera pubblica, che in quella privata, se si considera che ne sono giunti più di 200 e dai luoghi più diversi, come per nessun altro imperatore romano. Secondo la ricerca archeologica dedicata al tema, nell’ambito delle immagini a tutto tondo del primo imperatore di Roma, tema particolarmente studiato da un altro archeologo tedesco, Dietrich Boschung (Die Bildnisse des Augustus, 1993), sono tre i tipi iconografici più importanti: 1) “Alcudia”; 2) “Prima Porta”; 3) “Louvre MA 1280”. Tutti visibili alla mostra in varie repliche, questi tipi, come si accennava sopra, sono conosciuti grazie a un notevole numero di esemplari.
Il tipo “Alcudia” - presente alle Scuderie con il ritratto dai Musei Capitolini e con la splendida statua equestre dal mar Egeo (che pure, come ricorda Matteo Cadario a pag. 161 del catalogo, «nella disposizione più ordinata della frangia» mostra l’impronta classicistica del “Prima Porta” ) - è senza dubbio, dei tre tipi, il più antico e risale, come si tende a ritenere ora, al 40 a.C. ca (in precedenza veniva datato alla fine degli anni trenta del I secolo a.C.). E’ noto che il periodo tra il 40 e il 30 a.C. consegna l’atteggiamento più audace e spregiudicato di Ottaviano (non ancora Augusto), giovane emergente, ma già Divi Filius (dal 42 a.C., anno della divinizzazione del padre adottivo), impegnato in uno scontro – prima a “bassa frequenza”, poi aperto – contro un navigato rivale, Marco Antonio, per la conquista dell’eredità cesariana, fino alla vittoria di Azio (31 a:C.). Un giovane - lo si ricordava sopra - in veste di “capoparte”, nel corso di una guerra civile che, ad un certo punto, assume, alquanto retoricamente, le caratteristiche di quello che oggi si direbbe un clash of civilization: Apollo contro Dioniso, occidente contro oriente, bene contro male. Nella propaganda ottavianea, infatti, la guerra viene condotta non tanto o non solo contro il nemico romano, quanto contro l’alleata di lui Cleopatra - in un duello che oggi sembra rinnovarsi a suon di mostre, dato che proprio alla regina egizia, di cui Umbrialeft si è più volte occupata, è dedicata un’esposizione in corso di svolgimento al Chiostro del Bramante. Ottaviano, dunque, enfatizzò il pericolo per Roma di cadere nelle mani di un potentato straniero, per di più governato da una donna. A vittoria ottenuta, Orazio celebrò lo scampato servaggio con la celebre ode in cui invita a un gioioso brindisi dopo il suicidio della dissoluta regina: nunc est bibendum (Od. I, 37). In verità, che Ottaviano sia il difensore della tradizione, non appare in modo pieno nei suoi ritratti di quel periodo, il tipo “Alcudia” appunto. Qui, infatti, il giovane leader, più che a un austero romano, sembra accostarsi ad Alessandro il Macedone, in virtù della capigliatura mossa (dove già compaiono, a scendere sulla fronte, le ciocche “a tenaglia e “a forchetta”), della torsione del collo verso destra e dell’evidente pathos nell’espressione concentrata. Tuttavia, in alcune repliche, come quella dei Capitolini, già si nota una tendenza verso il successivo classicismo. Questa ambiguità di modelli, questo oscillare tra tradizione e cambiamento è del resto un fil rouge di tutto il regno di Augusto, politico assai abile e spregiudicato nella scelta di modelli di riferimento diversi in base alle circostanze.
Il tipo “Prima Porta”, che Paul Zanker preferisce denominare “tipo Augusto”, venne creato intorno al 27 a.C., in seguito al conferimento ad Ottaviano del titolo onorifico che poi entrò a far parte del suo nome. Rispetto al patetismo del tipo precedente, espresso dalla forte torsione del collo e dalla capigliatura mossa, qui tutto il volto, pur presentando elementi realistici (si vedano in particolare le orecchie a sventola) è dominato da una olimpica serenità, con cui il nuovo padrone di Roma intende rassicurare il proprio popolo. L’evidente impostazione classicistica rende «sublime» (Zanker) la raffigurazione del principe, divenuto ormai uomo superiore, senza età e senza tempo. E la nuova immagine divenne, per così dire, definitiva, o, per lo meno, assai fortunata, anche dopo la morte, considerando i circa 150 ritratti conservati ascrivibili a questo tipo. Di essi occorre ricordare: quello della colossale statua di Arles, che domina imponente la prima sala dell’esposizione; la bronzea testa del British Museum, anch’essa esposta alle Scuderie; soprattutto, il volto della statua loricata eponima della tipologia, rinvenuta appunto a Prima Porta e, oggi come ieri, icona dell’evento.
Di difficile inquadramento cronologico è il tipo “Louvre MA 1280”, detto anche “Forbes” (dal nome di colui che ne ha scoperto un’importante esemplare, conservato al Museum of Fine arts di Boston), che alla mostra è rappresentato dal ritratto che dà il nome alla serie e dal busto con corona sul capo, conservato ai Musei Capitolini. L’Augusto di questa tipologia appare, rispetto al “Prima Porta”, meno idealizzato e quindi, secondo D. Boschung (ed Eugenio La Rocca, pag. 174 del catalogo), cronologicamente precedente. P. Zanker, invece ritiene preferibile «intenderlo come un’intenzionale affievolimento della stilizzazione alto-classica» (pag. 156). Occorre poi menzionare una testa marmorea rinvenuta nel 2005 a Roma, in via di Massa san Giuliano e presentata alla mostra dedicata qualche anno fa a Giulio Cesare presso il Chiostro del Bramante: simile al tipo “Forbes” nella capigliatura, ma diversa in alcuni particolari all’immagine nota del princeps, sfugge ad un inquadramento sicuro entro una delle tre tipologie (si veda C. Campi, in Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito, Silvana Editoriale, pag. 224).
Precedenti al tipo “Alcudia”, ma ad esso assai simili, sono attestati alti due tipi: il “Béziers-Spoleto” e il “Lucus Feroniae”. Essendo poche le repliche a noi pervenute, si è pensato ad essi come ad immagini “sperimentali” degli anni 43-42 a.C., sostituite poi da quelle “Alcudia”. Alla mostra sono esposti la testa dalla basilica di Lucus Feroniae, il ritratto da Béziers (qui nello scatto di Araldo De Luca) e quello proveniente dal teatro di Spoleto e oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale della città. In particolare, il tipo Béziers-Spoleto, che per taluni riprodurrebbe il volto della statua dorata equestre del 43 a.C., sembra essere la più antica immagine conosciuta di Ottaviano, rappresentato all’età di venti anni.
Nel percorso delle Scuderie davvero notevoli sono gli splendidi argenti da Boscoreale (attualmente conservati al Louvre) e i preziosi cammei con ritratto di Augusto provenienti da Londra, Vienna e New York. Senza dubbio, però, come si legge nella presentazione, “fulcro visivo” dell’esposizione sono appunto le statue dell’imperatore: l’Augusto pontefice massimo (dal Museo Nazionale Romano) e, naturalmente, l’Augusto di Prima Porta (Musei Vaticani), che i curatori della mostra hanno posto, in modo assai suggestivo, fianco a fianco ad una copia romana del Doriforo policleteo, a rendere ben visibile la ripresa della ponderazione del modello greco nella statua dell’imperatore. Ma centrali, come espressione di un’arte fondata su un classicismo nuovo, frutto di una rielaborazione del modello greco, sono anche sculture come l’Afrodite detta del Frejus, o l’Afrodite cosiddetta Charis, entrambe innovativa reinterpretazione augustea da un tipo statuario bronzeo della seconda metà del V secolo a.C., come ricorda Eugenio La Rocca nel catalogo, in un interessante saggio significativamente intitolato La costruzione di una nuova classicità (pagg. 184-201).
La sala conclusiva presenta, infine, un eccezionale documento, per la prima volta ricostruito unificando le parti che lo compongono, dislocate tra la Spagna e l’Ungheria: si tratta del cosiddetto ciclo di rilievi Medinaceli, 11 lastre provenienti da un monumento campano eretto in memoria di Augusto dopo la sua morte, con la raffigurazione, tra l’altro, di uno scontro navale nel corso della battaglia aziaca.
Da visitare anche il sito dedicato alla mostra (www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-augusto-roma), davvero ricco di materiali e con un’interessante mediateca costantemente aggiornata.
Un’ultima considerazione: sarebbe stato forse opportuno approfondire il tema del rapporto di Augusto con il mito di Alessandro Magno, mito di grande fortuna nel mondo romano (si pensi solo a Pompeo, o a Cesare). Certo, i moduli iconografici di alcuni ritratti presenti alle Scuderie si richiamano all’immagine del Macedone, ma un aspetto così importante nella definizione del potere augusteo meritava un maggiore rilievo. Il (nuovo) classicismo con cui Augusto volle ammantare il suo potere non fu una soluzione ab origine, essendo piuttosto l’esito di una serie di assestamenti che seguirono alla sua ascesa al potere. Infatti, subito dopo la battaglia di Azio del 31 a.C., ben diversi dal sobrio classicismo furono i riferimenti politici del nuovo leader. Eliminato Antonio, che tanto si era ispirato al sovrano macedone, Ottaviano poté fare suo – a fianco del richiamo a Romolo - il motivo dell’imitatio Alexandri, per altro perspicuo anche nelle Res gestae Divi Augusti - da lui stesso redatte e fatte incidere per essere diffuse in tutto l’impero - in cui è chiara l’allusione ad Alessandro. Tale imitazione si fece meno diretta solo a partire dal 26 a.C. e poi sempre più nascosta appannaggio della decisa svolta classicistica. Ma negli anni dal 29 al 26 a.C. l’affinità con Alessandro fu davvero esplicita. Svetonio (Vita di Augusto 50), ad esempio, racconta dell’uso (quasi sicuramente limitato a quel periodo) di Augusto di sigillare le lettere con l’immagine del Macedone. Testimonianza significativa di questa politica fu senza dubbio la costruzione nel 28 a.C. del proprio Mausoleo, chiaramente ispirato alla tomba del Macedone, visitata da Ottaviano due anni prima, nel corso della sua permanenza ad Alessandria, in Egitto, terra con cui il princeps ebbe non a caso un rapporto privilegiato. Sempre Svetonio (Vita di Augusto 18) racconta l’episodio verificatosi proprio durante quella circostanza: Augusto volle rendere omaggio alla salma di Alessandro e, alla richiesta se desiderasse visitare anche la tomba dei Tolemei, rispose di “aver voluto vedere un re, non dei morti”. L’aneddoto, assai indicativo circa la forza del mito di Alessandro, dovette colpire molto anche il Petrarca, che, nell’introduzione del De viris illustribus, lo raccontò con risalto, per significare la differenza, ben chiara ad Augusto, tra chi è solo potente e chi è davvero illustre, differenza che il Machiavelli, con la sua consueta immediatezza espressiva, avrebbe racchiuso nella secca contrapposizione tra “imperio” e “gloria”.
Nella foto:
Ritratto di Ottaviano del tipo Béziers-Spoleto
Da Béziers Tolosa, Musée Saint-Raymond (foto di Araldo De Luca)

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