Quel pugile che non vuole appendere i guantoni al chiodo…
Intervista a Paolo Moreno
di Giovanni Corazzi
Nel corso della sua remota carriera, almeno una sfida – quella contro il tempo – l’ha vinta, questo boxer che al Museo Nazionale Romano (già Museo delle Terme) suscita l’entusiasmo del pubblico senza nemmeno tirare un pugno. La fama del Pugile delle Terme (sul quale si possono vedere da ultimi: Zurück zur Klassik, Ein neuer Blick auf das alte Griechenland, Leibieghaus Skulpturensammlung, Frankfurt am Main, 2013, a cura di Vincenz Brinkmann, München 2013, p. 330; Annarena Ambrogi, in Palazzo Massimo alle Terme, Le collezioni, a cura di Carlo Gasparri e Rita Paris, Roma, Milano 2013, p. 115-117, n. 62) ha viaggiato lontano, non solo nel tempo, bensì nello spazio – Germania, Giappone, Australia – tanto che l’atleta si è esibito quest’estate nella tournée americana quale autentico Ancient Masterpiece: così recita il titolo della mostra tenuta al Metropolitan Museum of Art (MET) di New York, in occasione del 2013, Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti.
Narrano le cronache che il personaggio di corporatura maggiore del naturale (128 centimetri di altezza, in quanto seduto e curvato), tornò alla luce il marzo 1885 a Roma nelle fondazioni dell’ex Convento di San Silvestro al Quirinale, in prossimità delle Terme di Costantino (ubicate sul versante sud del colle, tra le attuali Via XX Settembre e Via Nazionale): erano in corso i lavori per la costruzione del Teatro Drammatico Nazionale (ora scomparso). Insieme fu rinvenuto un altro originale in bronzo, parimenti destinato alla celebrità: dapprima collegato quale Dioscuro al Pugile stesso in un improbabile contesto mitico, poi corretto in Principe ellenistico, infine riconosciuto come il romano Flaminino, esuberante nudo di un artista di Pergamo, dedicato “in lettere greche” (scrive Plutarco) dall’alleato Eumene II nell’Urbe il 194 a. C. per il trionfo sul regno di Macedonia.
L’archeologo Rodolfo Lanciani racconta lo stupore provato alla vista del Pugile: “sono stato presente nella mia lunga carriera a molte scoperte e ho inaspettatamente incontrato reali capolavori. Ma non ho mai provato un’impressione simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro, uscente lentamente dal terreno come si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti” (R. Lanciani, Ancient Rome in light of recent discoveries, Rome 1888, p. 305-306). Il nostro boxer segnato dall’agonismo, che nel volto barbato ricorda il pugile Satiro dell’artista ateniese Silanione (IV secolo a. C.), è rappresentato con muscoli poderosi assiso su una roccia (moderna), secondo il fortunato modello presente anche in una pasta vitrea ellenistica. Rispetto alla visione frontale del corpo nudo, protetto solo dal sospensorio (kynodésme), una brusca torsione del collo fa girare verso destra il viso ferito, da cui è appena stillato il sangue che bagna gamba e braccio destro. Colpisce il realismo dei particolari: le orecchie rigonfie; le ferite di chi ha appena concluso un’aspra lotta; i guantoni fasciati da stringhe di cuoio (himántes, già noti a Platone); lo sguardo improvvisamente rivolto in alto; il disegno classico della barba e della chioma, alterato dal sudore e scomposto nello scontro. Realizzata da un sommo artefice ellenico, la statua giunse a Roma forse al tempo di Massenzio, per decorare quelle Terme di cui presto sarebbe divenuto titolare Costantino (312 d. C.). Controversa, sin dalla scoperta, la cronologia dell’opera, con un arco che va, nelle contraddizioni degli studiosi, dalla seconda metà del IV secolo a. C. alla prima metà del I a. C. Un contributo persuasivo viene a questo proposito dallo storico dell’arte antica Paolo Moreno (www.paolomoreno.com), attraverso numerosi scritti, tra i quali è opportuno ricordare la voce Pugile delle Terme nell’Enciclopedia dell’Arte Antica (Secondo Supplemento, IV, 1996), e un capitolo de La bellezza classica (Allemandi 2008): evidenti confronti rafforzano la datazione alta (IV a. C.) con l’attribuzione a Lisippo, il fecondo bronzista di Sicione, che lo studioso ben conosce, avendogli dedicato in anni passati una monografia (Vita e arte di Lisippo, Il Saggiatore 1987) e la mostra Lisippo, L’arte e la fortuna, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1995 (catalogo Fabbri Editori). Abbiamo dunque pensato di rivolgere qualche domanda proprio al Prof. Moreno, il cui metodo altre volte ha guidato i lettori di Umbrialeft indietro nel tempo, alla sorprendente e piacevole scoperta del mondo antico in termini di sapiente semplicità.
Professore, con quale tecnica è stata realizzata la statua?
Siamo informati sul capolavoro grazie alle osservazioni compiute durante i restauri di Lucia Miazzo, poi di Anna Maria Carruba con la direzione di Maria Rita Sanzi Di Mino, conclusi nel 1987. La fusione a cera persa è col metodo indiretto. Su un’anima rustica si plasmava nella cera l’intera figura, ricavandone forme negative per ciascuna delle parti da fondere separatamente e poi saldare tra loro. Nel nostro caso, la postura del soggetto e lo strenuo perfezionismo dell’artefice, hanno portato a moltiplicare eccezionalmente le sezioni, tra le quali accertiamo: 1-2, i nessi delle tre dita centrali nei piedi, utili a modellare liberamente gli spazi interdigitali (il medio del piede sinistro reca incisa la lettera álpha, iniziale di aristerós, “sinistro”, a distinguere la pertinenza all’arto); 3, la gamba sinistra; 4, la gamba destra insieme al torso; 5, il sesso; 6-7, la parte superiore delle braccia; 8-9, gli avambracci coi guantoni; 10, la testa; 11, le labbra di rame massiccio (non in lamina), inserite nella cera e ancorate così stabilmente al riempimento da aver impedito ogni dislocazione durante la colata; 12, sotto l’occhio destro, l’impressionante ematoma a fusione piena; 13, la calotta cranica, che troviamo sostituita da un rifacimento tardo antico. Gli stampi per ciascuno degli elementi (tranne 11 e 12), vennnero spalmati internamente di cera. Chiodi distanziatori in ferro – che ha un punto di fusione più alto rispetto ai metalli dell’amalgama – garantivano la permanenza dell’interstizio tra la forma e il riempimento durante il getto della lega ternaria, che qui comprendeva, su 100 parti, 80 di rame, 10 di stagno e altrettante di piombo. Il composto fuso sostituiva la cera che un preventivo riscaldamento aveva fatto uscire dagli appositi canaletti. Gambe, braccia e ogni altro componente furono assemblati con tale virtusismo che le saldature restano indistinguibili all’esterno: soltanto le radiografie e l’ispezione interna alla statua con sonde ottiche hanno consentito la mappatura dei giunti, come dei pannelli di cera originariamente applicati dentro le matrici e perpetuati dal bronzo. La finitura comprendeva: l’eliminazione di ogni irregolarità (chiodi affioranti, canalicoli, bolle d’aria); l’inserimento degli occhi (ora perduti), intarsiati in materiali policromi e lucenti; l’applicazione di rame puro in lamina per il tono rossastro dei capezzoli, e in agèmina (entro un solco scavato sul bronzo) per le ferite del volto e le gocce di sangue sulla gamba e sul braccio destro; l’incisione con bulino e cesello per il pelo sul pube e sul petto, la barba e la chioma, nonché le minuzie dei guantoni.
Quali sono gli elementi stilistici che permettono di datare l’opera al IV secolo a. C.?
La magistrale tecnica descritta di per sé porta alla datazione in età classica, non trovando nell’insieme esempi più tardi. In particolare le sezioni realizzate da 1 a 4, rimandano al Tideo di Agelada (dal mare di Riace, al Museo Regionale di Reggio Calabria), che apparteneva al gruppo dei Sette a Tebe innalzato in Argo dopo il 456: procedimenti abbandonati in età ellenistica, come l’ardua resa delle labbra in rame massiccio. Il livido sotto l'occhio destro eseguito in una lega più scura (n. 12) corrisponde all’opposto espediente cromatico di Silanione che otteneva con l’argento il pallore della Giocasta morente (a Tebe, prima del 335).
Nei bronzi ellenistici, i globi oculari verranno montati introducendone le parti attraverso le orbite, mentre l’autore del Pugile previde alloggiamenti dove i bulbi completi furono collocati dall’interno della testa, dopo che questa era stata saldata al corpo: allo scopo era stata lasciata aperta la calotta lavorata a parte, altra rara soluzione (n. 13): la sommaria imitazione che ne vediamo ora, deriva dal fatto che la statua onoraria, esposta all’aperto, aveva richiesto la protezione del menískos, il disco metallico da cui deriverà l’aureola cristiana; al momento di trasferire il cimelio atletico entro le Terme urbane, il nimbo aderente alla calotta apparve forse danneggiato, comunque superfluo: quindi eliminato, rifacendo alla meglio il vortice (poco visbile) della capigliatura.
Un volume geometrico iscrive la disposizione, apparentemente spontanea, del corpo affaticato: dall’invaso cubico si libera solo lo scatto del capo verso destra, comune all’immagine di Festo, figlio di Eracle, che appare così seduto con le braccia poggiate alle gambe e la testa volta di lato, sulle monete della città che conservava a Creta il nome del leggendario fondatore: la coniazione inizia verso il 320.
L’anatomia atletica è rigorosamente compattata, senza alcuna di quelle espansioni che esagerano la muscolatura nell’ellenismo pergameno e rodio fino al Torso del Belvedere in Vaticano, firmato dal copista Apollonio su committenza occidentale al termine della repubblica romana. È stata la tenace suggestione del Torso ad alterare il giudizio sul bronzo dal Quirinale: per il fatto che anche il marmo vaticano presenta un personaggio seduto (benché addizionato di muscoli sovrannaturali!), troppo a lungo si è accreditata l’errata lettura del nome Apollónios sulle stringhe del Pugile (Rhys Carpenter, 1927). Pur constatata l’inesistenza della firma (Margherita Guarducci, 1960, e gli attuali restauri), una pretesa coerenza viene frequentemente evocata. Tra le altre fantomatiche motivazioni tardo ellenistiche: il verismo del ritratto, che però è assegnato da Plinio come novità a Lisistrato, fratello di Lisippo, e probabile collaboratore al Pugile; i ciuffi appuntiti dei baffi paragonati ai Galati dei donari pergameni (dove riguardano un costume bellico, il grasso che modellava il pelo in una maschera barbarica), trascurando la specifica, drammatica constatazione che il Pugile ha perduto i denti dell’arcata superiore dietro il labbro affossato, per cui il fiato affannoso soffia in alto, aprendo a raggiera i baffi intrisi di sabbia e sudore.
La progressiva conoscenza della scultura al tempo degli epigoni di Alessandro, comincia a diffondere nella letteratura archeologica il senso della seriorità del Torso rispetto al Pugile che finalmente si osa ascrivere, con accademico dubbio, alla maturità del classico (Vincenz Brinkmann 2013). Sorprende pertanto che Il Metropolitan di New York abbia ospitato il Pugile con la presunzione del tardo ellenismo (Seán Hemingway, 2013), e che la scheda del recente catalogo del Museo Nazionale Romano concluda allo stesso modo, pur percorrendo le diverse voci critiche (Annarena Ambrogi, 2013). Lo smarrimento del metodo come del buon senso, ci preoccupa parimenti in chi spiega il moto della testa come il volgersi verso un colombo viaggiatore, messaggero di vittoria che però vola in direzione opposta allo sguardo del Pugile sulla pasta vitrea che lo riproduce (Matteo Cadario 2003); ovvero in chi parla dell’attenzione del protagonista a un prossimo avversario da affrontare, come se un match di tanta violenza si ripetesse in giornata (Paul Zanker 2005). Tra gli estremi del dibattito, le teoriche elusioni di compromesso (primo o medio ellenismo), non sono compatibili con la ragionata collocazione dell’opera nel catalogo di Lisippo intorno al 338.
In base a quali argomenti il Pugile va dunque ritenuto opera di Lisippo?
Per la coerenza di ogni aspetto tecnico, iconografico e stilistico con quanto sappiamo di lui dalle fonti letterarie e dalle opere sicuramente identificate. All’incrocio (chiasmós) di Policleto nella distribuzione delle forze, Lisippo aveva sostituito l’opposizione (antíthesis) secondo l’asse della figura, per cui se a destra gamba e braccio sono impegnati, a sinistra appaiono in riposo, o viceversa: la testa ruota verso il fianco libero come a trasmettervi la tensione. Nel Pugile in riposo, a destra gli arti si rilassano, e il capo si volge enfaticamente da questa parte, mentre la flessione è pronunciata a sinistra nella gamba e nel braccio con la mano che va a coprire l’altra. Lisippo è l’unico artista celebrato in antico per aver alluso alla sordità, circostanza manifesta nel vincitore affranto, dove i gonfiori delle orecchie ostruiscono la conca auditiva. L’effetto si assomma allo stordimento per produrre il subitaneo volgersi del capo a un richiamo che è fuori della composizione plastica, la tromba dell’araldo, prima del verdetto da parte dell’arbitro: quella che sarà la “tromba del Giudizio” nell'Apocalisse cristiana. Il tema esprime la sospensione teorizzata da Lisippo col Kairós, momento propizio all’artista, che faccia intendere il passato e l’immediato divenire. Gli schizzi di sangue dalle ferite del viso soltanto a destra (braccio, guantone e coscia) denunciano la rapidità istantanea del volgersi del capo in quella direzione. Intuizione che mirabilmente si concilia con la cura per la perennità del monumento in un santuario: Pausania scrive che il Polidamante di Lisippo stava presso la fronte del tempio di Zeus in Olimpia. La cerimonia agonistica evocata dall’artefice sublimava nella coincidenza dello sguardo verso il dio che dominava dal timpano, significando da quale volontà venisse ogni riconoscimento all’umana virtù. Una felice congiuntura storica dà il nome al personaggio rappresentato nel bronzo. La statua postuma di Polidamante, nativo di Scotussa, era stata voluta dal dinasta della Tessaglia Daoco II che aveva contribuito alla vittoria di Filippo II a Cheronea (338), e che si era fatto rappresentare in marmo a Delfi nel gruppo dove gli antenati Agelao e Agia risalivano ai bronzi di Lisippo a Farsalo. L’intervento a Olimpia è documentato dai resti della “base alta” ornata dai fregi con l’uccisione di leoni e la vittoria su tre guardie armate alla corte di Dario II di Persia: all’impianto del simulacro seduto si offriva l’inusuale superficie di un metro quadrato. Campione nel pancrazio, unione di lotta e pugilato, il personaggio assurgeva al livello eroico per la comparazione delle sue imprese a quelle di Eracle col Leone a Nemea e contro Gerione tricorpore. A detta di Luciano, l’icona di Polidamante (ancora nel santuario al tempo degli imperatori Antonini) guariva i malati. Di fatto, nel pancraziaste la parte anteriore del piede destro che sporgeva dal plinto, è consumata dal secolare tocco dei fedeli, come il piede del bronzo di San Pietro assiso nella Basilica vaticana. I guantoni lasciano libera parte del palmo e tutte le dita, permettendo l’opposizione del pollice, cioè le prese di lotta che rientravano nel pancrazio. Esibiti in primo piano, gli strumenti della dura specialità diventano manifestazione della preziosa “acutezza” (akríbeia) del Sicionio, “espressività salvata fin nei minimi particolari” (argutiae operum custoditae in minimis quoque rebus, Plinio): il vello dell’imbottitura, l’intreccio delle corregge, i singoli punti della cucitura sul bordo di rame rosso in ciascun dito del mezzo guanto. Osservare sull’originale per credere, fino al margine delle unghie pari a quelle del coevo Atleta stante di Lisippo al Getty Museum di Malibu. L’immagine di Festo, ricordata come caposaldo cronologico grazie alle monete della città omonima, si dispone a sua volte nella seriazione dei paragoni lisippei col nostro: dopo la scomparsa di Alessandro (323), Lisippo era tornato a Sicione, dove si ha notizia della statua eroica di Festo, echeggiata a Creta verso il 320. Rispetto al Pugile, per l’analogo, accurato trattamento della barba e della chioma (capillum exprimendo, Plinio), la successione citata dell’Epitrapezio (336-335) si conclude con l’Eracle meditante a Taranto (dopo il 314), “suprema e ultima opera” del bronzista negli stupefatti racconti degli scrittori a Bisanzio, dove il colosso era pervenuto al tempo di Costantino. Seduto anch’esso, è noto da versioni ridotte e dalla testa superstite della copia marmorea in dimensione naturale lasciata da Fabio Massimo alla città italiota tolta ad Annibale, quando portò il bronzo nell’Urbe (208). Vi si esalta il tormentato volto del Polidamante col suo animato coronamento: i ciuffi fiammeggianti della barba, il pelame di raccordo con le guance, la fuga in “crescendo” dei grossi riccioli della chioma, mentre ritornano all’ordine i baffi, con gioia dei patiti per la classificazione periodizzante delle forme. Portata alle proporzioni del colosso, una spettacolare traduzione in resina della testa di Eracle (lettura laser e trattamento informatico tridimensionale), sta all’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Taranto: visita da non mancare, appena sarà terminato il nuovo allestimento delle collezioni, per chi voglia compiutamente intendere il potenziale messaggio del bronzo dal Quirinale.
1 Pugile delle Terme, bronzo, identificato col Polidamante di Lisippo in Olimpia, circa 338 a. C., dal Quirinale, Terme di Costantino. Roma, Museo Nazionale Romano

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