di Marco Carminati

Facendo un attimo mente locale ci si rende conto che lo sviluppo della storia dell'arte occidentale, e in particolare della storia della pittura, deve moltissimo ai fecondi contatti di grandi maestri capaci di intercettare e favorire allievi di prim'ordine. In passato era semplice farlo, perché la formazione di un aspirante artista non avveniva nelle scuole o in accademie affollate, ma in piccole botteghe private, spesso a conduzione familiare. Chi aspirava a diventare artista, attorno ai 13-15 anni veniva messo a bottega da un maestro più anziano. L'apprendistato durava in media tre anni e l'allievo viveva in casa del suo docente giorno e notte, imparava la sua arte, carpiva i "segreti" della sua bottega e usufruiva dei servizi di vitto e alloggio.

Naturalmente tutto questo veniva profumatamente pagato al maestro dalla famiglia dell'aspirante Apelle. Una volta terminato l'apprendistato, l'allievo diventava a sua volta un «maestro in diritto», cioè in grado di esercitare la professione. In verità, per esercitare la professione era spesso necessario iscriversi alle «corporazioni» degli artisti, che erano istituzioni locali sorte a difesa del lavoro degli artisti autoctoni contro le "invasioni" dei maestri "forastieri". Ma se dovessimo fare un breve appello dei principali mentor & protégé della storia dell'arte occidentale, chi potremmo chiamare in causa? C'è solo l'imbarazzo della scelta.

Dante Alighieri, nell'XI canto del Purgatorio, rievoca in una terzina celebre una coppia di mentor & protégé di prima grandezza: «Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido,/ si che la fama di colui è scura». Il giudizio è pesante. Il grande Cimabue, che fonti antiche indicavano come lo scopritore del genio di Giotto e che per anni aveva conservato il primato nella pittura, ai tempi di Dante era già stato superato nella «fama» dal più giovane e più moderno allievo. Un rapporto assai curioso legò altri due protagonisti del Rinascimento italiano: il maestro Domenico Ghirlandaio e l'allievo Michelangelo Buonarroti. Nel 1488 il tredicenne Michelangelo entrò come apprendista nella bottega fiorentina di Ghirlandaio. Ma l'apprendistato durò poco. Ghirlandaio capì subito di avere un allievo fuori norma e Michelangelo intuì i limiti del maestro. Morale: un anno dopo, invece di pagare la "retta", Michelangelo chiese al maestro di essere pagato per il suo lavoro. E l'anno successivo abbandonò la bottega: il Buonarroti preferì andare a lavorare direttamente per Lorenzo de' Medici nel suo giardino. E Ghirlandaio lo spedì volentieri.

Bella è anche la storia che vede protagonisti il mentor Verrocchio e il protégé Leonardo da Vinci. Verrocchio stava dipingendo un Battesimo di Cristo e affidò all'allievo Leonardo un dettaglio secondario: due angeli in primo piano. Ma, vedendo la straordinaria bellezza di quelle due figure, Verrocchio ammutolì, depose i pennelli e giurò a se stesso che non li avrebbe mai più ripresi in mano. E così fece. Le fonti ci raccontano di altri proficui incontri ravvicinati tra maestri e allievi. Positivamente fatali furono, per la storia della pittura, i sodalizi tra il maestro Pietro Perugino e l'allievo Raffaello Sanzio, tra il maestro Filippo Lippi e l'allievo Sandro Botticelli, tra il maestro (e zio) Antonio Canaletto e l'allievo (e nipote) Bernardo Bellotto. Per non dire dell'eccezionale «chompagnia» istituita ad Anversa tra l'astro fulgente della pittura barocca Pietro Paolo Rubens e il suo bravissimo allievo e protégé Antonio van Dyck.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 13 ottobre 2013

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