Il ricordo di una guerra attraversa più generazioni, perdendo via via d'intensità, fino a diventare sbiadito luogo comune. I sessantenni di oggi possiedono l'esperienza del racconto dei padri quando la radio era fortuna di pochi, la televisione muoveva i primi passi e a raccontare c'erano solo loro.  Ai quarantenni nessuno l'ha mai raccontata e per il ventennio la Seconda guerra mondiale rappresenta il più delle volte un sonnolento attraversamento di pagine e pagine del manuale di storia tra i banchi del Liceo. Bene che vada, le sofferenze, i dolori, i lutti, le distruzioni, le fatiche della vita quotidiana sotto le bombe sono affidate alla ritualità delle celebrazioni, alle monumentalità della memoria.

Eppure la guerra è cosa reale per la vita delle persone. A Monteleone di Spoleto, venerdi 19 luglio a partire dalle ore 10, presso il Teatro comunale, l'Istituto per la storia dell'Umbria contemporanea e l'Associazione “Pro Ruscio” organizzano un Seminario di studio dal titolo “Lavoro obbligatorio in Umbria (1942 – 1943): Il caso del campo per prigionieri di guerra di Ruscio”.  Una iniziativa che intende entrare dentro le realtà della guerra. L'Umbria, in quel drammatico biennio, vide nel suo territorio funzionare una decina di campi che ricoprivano tutta la casistica del sistema concentrazionario fascista: campi per prigionieri di guerra (Pissignano PG 77, Morgnano di Spoleto PG 115, Ruscio pg 117), campi per internati civili montenegrini (Colfiorito i.c.)  e campi di lavoro (Pietrafitta-Tavernelle con i distaccamenti di Ellera di Corciano e Castel Sereni) popolati in prevalenza da sloveni rastrellati dall'Istria e da Lubiana.  Da tenere in conto anche i campi di lavoro per p.g. Inglesi e Sudafricani di Marsciano e Casemasce di Todi.

Quasi tutti i campi di lavoro erano dislocati presso le miniere di lignite della regione, scoperte come risorsa alla vigilia della prima faticosa industrializzazione di fine Ottocento, rilanciate in occasione della prima guerra mondiale e sottoposte a sfruttamento intensivo come supporto indispensabile allo sforzo bellico dell'industria ternana durante il Secondo conflitto mondiale. L'attività estrattiva costituì risorsa strategica per la gente chiamata a sopravvivere in un'economia di guerra che offriva magre possibilità di sbarcare il lunario; servì anche come via di fuga dalla guerra guerreggiata per centinaia di giovani che scelsero il servizio sostitutivo in miniera piuttosto che partire.

 

La possibilità di sfruttare i prigionieri come forza lavoro fu intravista piuttosto tardivamente dalle alte gerarchie dell'Esercito. Sul territorio nazionale si cominciò con piccoli contingenti prestati dai comandi locali ad aziende agrarie del nord affamate di braccia per i lavori stagionali della primavera estate del '41. Dobbiamo aspettare un anno, allorché nel maggio 1942 lo Stato Maggiore dell'Esercito dirama una circolare organica per disciplinare su larga scala l'utilizzo di manodopera obbligatoria. Si deve tuttavia fare i conti con la Convenzione di Ginevra firmata nel '29 e ratificata nel 1931 anche dal Governo Mussolini, la quale vietava l'uso di prigionieri di guerra per attività legate all'industria bellica.

L'Umbria ancora una volta diviene caso emblematico. Era evidente alla Croce Rossa Internazionale il legame tra industria estrattiva ed industria siderurgica. Nei campi di Morgnano e di Ruscio si aggirò l'ostacolo traducendo al lavoro soldati del disciolto Esercito del regno di Jugoslavia, i meno protetti dalle garanzie internazionali perché appartenenti ad uno Stato che non esisteva più.  Allorché il Ministero della Guerra, a partire dal gennaio – marzo 1943, in risposta alle montanti richieste dell'industria nazionale di forza lavoro a basso costo, pianificò l'uso intensivo di oltre 14.700 prigionieri, si dovette, per quelli impiegati nel sottosuolo, uscire dalle ambiguità. Si ricorse così ad un'altra potenziale forza lavoro, quella dei così detti internati civili, cittadini delle zone occupate della Slovenia e del Montenegro rastrellati dalle truppe italiane e deportati oltre Adriatico.   Morgano fu svuotato dei p.g. rimpiazzati da internati civili; Ruscio fu declassato a campo per i.c . trasferiti dal campo di Colfiorito ed alle sue dipendenze venne allestito un nuovo campo a Città Ducale popolato da 150 internati provenienti da Colfiorito. Funzionarono fin poco dopo l'8 settembre.

Il campo di lavoro di Ruscio rappresenta per gli storici un caso classico per districarsi nella comprensione di una realtà complessa che oscilla tra interessi dell'industria nazionale, guerra tra poveri, ambiguità diplomatiche, attese di un miglioramento delle proprie condizioni da parte delle varie tipologie di prigionieri; occasione importante per porre al centro dei lavori del Seminario una domanda: a chi giovò?

Dino Renato Nardelli

Istituto per la storia dell'Umbria contemporanea 

Condividi