di Elio Clero Bertoldi

PERUGIA - Anno domini 1501. Nel palazzo del Capitano del Popolo (costruito appena pochi anni prima, nel 1473 e oggi sede della corte d'appello) tiene udienza il podestà conte Giovanni De Sellis di Forlì. Deve deliberare sull'accusa di "alto tradimento" mossa a Roberto Trincia dei Coppoli, poco più che ventenne, uno dei partecipanti alla congiura di qualche mese prima (luglio 1500), nota come "Le nozze di sangue".
La scena è descritta, con toni vividi, nelle pergamente di recente ritrovate, lette e studiate dal dottor Alberto Maria Sartore dell'Archivio di Stato.
Roberto Trincia è cognato di Girolamo della Penna, la figura di maggior spicco e peso (gli altri sono Filippo Baglioni, il più maturo dei congiurati, figlio bastardo di Braccio, Carlo il Barciglia figlio di Oddo, e Federico detto Grifonetto, il cui nonno era proprio Braccio), anche perché legato da parentela stretta con i conti da Varano (probabili ispiratori della raccapricciante strage) e figlio a sua volta della figlia del grande Braccio, Innocenza Baglioni.

Gli atti del processo forniscono una foto nitida e precisa di quelle tumultuose e sanguinose ore fra la mezzanotte tra il 14 e 15 luglio, l'alba livida, la mattina e il pomeriggio di quella tragica giornata e i giorni del potere dei congiurati, che ebbero la loro fine con l'inarrestabile rientro in città di Giampaolo Baglioni e l'uccisione del "traditore" Grifonetto, la cui immagine resta immortale nel dipinto della deposizione di Raffaello, commissionato dalla madre del giovane, Atalanta Baglioni, moglie di Grifone (morto, anche lui giovanissimo, in uno scontro d'arme, anzi un agguato, a Cantiano), l'amato figlio di Braccio.

I testimoni sfilano davanti al podestà e raccontano - la procedura richiede che oltre a scandire il nome, l'età, la professione, il censo, il teste assicuri pure di essersi confessato e comunicato di recente - i tragici particolari di quei fatti sconvolgenti.
Uno dei convocati rivela che i congiurati fossero tra i 70 e i 100 e che scorrazzassero, in armi e con le fiaccole in mano, in quello che ora è corso Vannucci e sulla piazza Grande urlando "Moiano li Bajoni e i loro fijoli" e scandendo i nomi delle casate di appartenenza. In testa ai tirannicidi Girolamo della Penna e Carlo il Barciglia.
Un altro riferisce di aver sentito Girolamo della Penna commentare così la mancata strage dei Tei (fedeli alleati dei Baglioni): "Non andranno cantando, perché le loro case sono state incendiate".
L'incendio delle case dei Tei, tra Porta Sole e Borgo Sant'Antonio, viene collocato poco prima dell'alba. E' proprio Girolamo a buttar già la porta di uno dei palazzi dei Tei. Bernardina, la moglie di Matteo Tei, gli si getta in ginocchio davanti. Lui e i suoi scherani spargono la polvere pirica sul letto matrimoniale di Matteo (che era già scappato con i quattro fratelli) e appiccano il fuoco. Da lì - il teste si dichiara sicurissimo - partì "l'incendio gigantesco" che mandò in fumo i palazzi della nobile casata perugina.

Altri ricostruiscono l'orrenda fine di Guido, ridotto a brandelli, tra i primi ad essere ucciso quella notte, dagli spietati Bernardino D'Antognolla e Berardo della Corgna.
Un testimone aggiunge di aver ascolatato il comando di Girolamo, rivolto a Grifonetto e a Roberto Trincia di recarsi alle case di Gentile Baglioni per ucciderlo (i congiurati si erano divisi i compiti per agire in contemporanea). Testimonianza, questa, a discarico del Trincia, i cui parenti sostenevano non avesse preso parte all'incendio delle case dei Tei. Un altro teste però afferma di aver visto sia Trincia sia Grifonetto tra gli incendiari, in quanto i due - non avendo trovato Gentile che si era dato alla fuga - si erano riuniti, dopo aver compiuto l'eccidio, alla spedizione punitiva contro i partigiani dei Baglioni.

E viene confermata, dalle pergamene, la cronaca del Maturanzio sulla fuga di Giampaolo, che pure assalito in casa, riuscì a respingere i congiurati, a saltare dalla finestra e, passando per i tetti, ad arrivare nella casa di alcuni studenti. Questi ultimi - tra i quali Achille de La Mandola - lo avrebbero aiutato a vestirsi da studente come loro e lo avrebbero accompagnato per un tratto di strada, permettendogli di uscire dalla città da porta Borgna (Eburnea), di trovare una cavalcatura e di raggiungere Gentile in zona Ponte della Pietra e da qui, infine, a spostarsi rapidamente a Todi dove il suo amico e parente (sua sorella Lucrezia aveva sposato Camillo Vitelli) Vitellozzo Vitelli era accampato in quei giorni con un piccolo esercito di 300 cavalieri.

Sangue, violenza, ferocia. Ma anche gesti di solidarietà e di affetto. Girolamo avrebbe mandato un fidato cameriere ad avvertire Grifonetto di mettersi in salvo, perché Giampaolo era ormai a Porta San Pietro. Suggerimento vano perché il giovane vagava, incurante del pericolo, per le strade. Non solo. Il Della Penna inviò "Antonio lo Scarpellaro" a salvare i figli maschi di suo cugino Grifonetto: Braccio III, Sforzino e Galeotto (la madre era Zenobia Sforza figlia di uno dei Conti di Santa Flora e di Francesca Farnese).
I congiurati ebbero in mano, per qualche giorno, la città. Che però non si schierò tutta dalla parte dei "tirannicidi" (tranne Porta Sant'Angelo legata ai Della Penna e Porta Santa Susanna, fedele ai Della Corgna). E già in quelle convulse ore si determinarono i primi contrasti tra Girolamo della Penna e il Barciglia e ancora tra il Della Penna e Filippo.

L'impetuoso e inarrestabile rientro di Giampaolo, con Gentile e Troilo, scompaginò i piani dei tirannicidi, che si diedero precipitosamente alla fuga. Chi poté. Grifonetto venne ucciso all'altezza dell'attuale via Oberdan, proprio dove iniziano le scalette di Sant'Ercolano. Roberto Trincia finì nelle mani della giustizia. E subì il processo senza nemmeno poter fornire la sua versione. Il verdetto, d'altronde, era scontato: la scure del boia gli tagliò la testa, con ogni probabilità nella zona di Campo Battaglia (tra l'uscita della galleria Kennedy e l'attuale tribunale penale), dove la guerresca gioventù perugina si formava allo sprezzo del pericolo, misurandosi nelle terribili e cruente sassaiole e dove venivano eseguite le sentenze capitali.
 

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