di Leonardo Caponi

 

PERUGIA - Quella di Terni è stata una vittoria. Certo anche questa, come accade per  molte vicende della politica e della vita, può essere giudicata con l'ottica del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Però esaminare i contenuti al di fuori del contesto nel quale sono maturati è un errore. E, il contesto non era favorevole ai lavoratori delle Acciaierie; tuttaltro. Da molti anni a questa parte, le vertenze operaie e sindacali, grandi o piccole che siano, sembrano destinate a svolgersi secondo un copione predefinito il cui epilogo finale è già scritto con l’impotenza e la sconfitta. La società è pervasa da una cultura nella quale le ragioni dell'impresa sono dominanti rispetto a quelle del lavoro. Lo sono tal punto che, nonostante  gli  appelli e gli ammonimenti  instancabili di una grande autorità morale e religiosa come il  Papa, il lavoro è divenuto, come si dice, variabile dipendente del mercato e la sua subordinazione, spesso umiliazione, vengono presentate come la condizione del dinamismo degli affari per la ripresa dell'economia. Che tutto questo cozzi con una crisi che non trova soluzione, nonostante abbia generato una quantità impressionante di disoccupati (trenta milioni in Europa  e oltre tre milioni e mezzo in Italia, per lo più giovani) sembra non contare, alla stregua di una cura che un medico continua a prescrivere anche se il paziente peggiora.

   Per i siderurgici di Terni c'era poi una difficoltà aggiuntiva: quella di trovarsi alle prese con una multinazionale. L'Umbria ha esperienza su quanto possano essere sfuggenti e qualche volta irraggiungibili, le multinazionali. Non si tratta solo di dimensioni  finanziarie e produttive da fronteggiare, ma di distanza "fisica", che vuol dire interesse  imprenditoriale mediato da questa lontananza e da altri business probabilmente prevalenti rispetto all'acciaio. Sono dovuti andare in Germania per poter parlare con qualcuno di diverso dalla "testa di legno" (sia detto con tutto il rispetto) che la multinazionale gli aveva messo di fronte a Terni. I lavoratori delle Acciaierie hanno ottenuto una vittoria su tutta la linea, rovesciando d'acchito le condizioni della loro inferiorità? No, di certo. Bisogna evitare enfatizzazioni e mantenere una visione critica dell’accordo. Però, guardando a quelle che erano le premesse e le mire dell'impresa, c’è di che poter essere soddisfatti. La conquista, fondamentale tra le altre, è la presentazione di un piano industriale che non garantisce, ma almeno lascia aperta la prospettiva di vincolare la Thyssen al mantenimento del polo ternano. E poi c'è il modo con il quale i siderurgici hanno difeso se stessi, la loro città, l'industria nazionale. Una lotta epica, lunghissima, una battaglia, si potrebbe dire, d'altri tempi, che rimarrà nella storia di Terni e del movimento sindacale italiano, combattuta, anche questo c'è da rilevare, con armi e strumenti "tradizionali". Rompendo le pratiche affermatesi in questi ultimi anni, gli operai di Terni non hanno fatto ricorso ad atti tanto spettacolari quanto disperati, come quello di issarsi su qualche ciminiera o salire sui tetti. Hanno confidato su strumenti propri delle lotte popolari, sull'unità con e tra i sindacati e con la città. Adesso c'è una corsa degli altri soggetti a rivendicare, ciascuno, il contributo dato alla soluzione della vertenza. Ma senza quei trentacinque giorni di sciopero, un tempo infinito per chi astenendosi dal lavoro ha dovuto rinunciare alla sua retribuzione, tutto sarebbe stato vano. Le tute blu di Terni hanno riscoperto qualcosa di sepolto nella memoria del Novecento: la coscienza di se e della propria forza come corpo collettivo. E del secolo scorso hanno ridato credito alla vecchia massima, anch'essa dimenticata: la lotta paga. Dai lavoratori di Terni viene un bel messaggio per tutti gli altri e l'Italia intera. E, in loro onore, tornano in mente le parole di un bel canto degli albori del movimento operaio italiano: "Noi non siam la canaglia pezzente...noi siamo chi suda e lavora...cessiam di soffrire che è l'ora...".

 

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