Il mecenate del futuro

di Leonardo Caponi
Brunello Cucinelli ha partecipato ad una puntata di Sottovoce, trasmissione notturna della Rai. Il lungo monologo di colui che è, di gran lunga, il più ammirato imprenditore umbro e nella elite di quelli nazionali, ha quasi completamente trascurato i suoi successi imprenditoriali per concentrarsi sulla sua visione del mondo e filosofia di vita. Esse sono ispirate ad un umanesimo dell’armonia e della bellezza, in parte già esistente, in altra misura da instaurare, che dovrebbe sovrintendere all’organizzazione economico sociale e civile per garantirne prosperità e felicità. Su questo terreno egli, che è unanimemente riconosciuto come il “re del chachemire”, si è dimostrato un vero e proprio imperatore della parola, col rischio, in verità, di una qualche sovrabbondanza dialettica ed enfatica, tipica di chi viaggia col vento in poppa, ma qualche volta non perfettamente collimante con la crudezza della realtà.
Ora, è fuori discussione il fatto che Cucinelli sia un bravo imprenditore e la sua un’ottima azienda ed è superfluo sottolinearne i meriti per il fatto di saper “reggere” e svilupparsi in tempi di crisi, per il contributo che da alla diffusione del buon nome dell’Umbria e del prestigio dell’Italia, per la ricchezza e il lavoro che produce. C’è un ulteriore elemento di pregio nella figura di Cucinelli imprenditore: risiede nella intuizione (che egli asserisce di aver avuto sin da giovanissimo) della “qualità” e delle produzioni di qualità, come chiavi della capacità competitiva italiana di fronte ad una concorrenza internazionale sempre più aggressiva e a costi più bassi. Ora, un imprenditore che di questo parla finalmente e non sempre di delocalizzazione, riduzione del costo del lavoro, flessibilità, libertà di licenziare è, in verità, una gran cosa.
Lode, dunque, a Cucinelli, Fossimo in lui, però, ci fermeremmo qui. Il resto e cioè la esplicazione della utopia del bello e dell’armonico come regola generale, anche per la mescolanza di elementi che la supportano (esperienze di vita, discussioni del bar, citazioni filosofiche), finiscono con l’assumere un carattere un po’ ridondante e danno l’impressione che si scambino illusioni per realtà o la realtà di pochi fortunati come elemento generalizzato e generalizzabile. Qualche maligno potrebbe obiettare che il culto della bellezza, a Cucinelli, non costa nessuno sforzo, poiché esso è semplicemente funzionale al businnes della sua impresa e che bisognerebbe vederlo all’opera in condizioni diverse. Analogamente si potrebbe osservare che il chachemire dell’impresa umbra, la cultura del bello e della felicità la fa principalmente là dove si vende, molto meno dove si produce, essendo le condizioni degli addetti alla produzione, particolarmente oggi, non propriamente gratificanti e felici.
Da questo punto di vista un altro nobile principio contenuto nell’impianto culturale dell’imprenditore umbro, cioè il rispetto della dignità del lavoratore e la messa al bando delle umiliazioni del passato (quelle, dice Cucinelli, che dovette subire mio padre e la sua generazione) corre il rischio di essere sminuito o addirittura inapplicato se non lo si propone nella sua giusta dimensione e cioè quella di un diritto e non di una concessione. C’è una differenza fondamentale tra i due termini, perché non tutti gli imprenditori sono umanisti e comprensivi o, forse, non tutti sono nelle condizioni di poter essere umanisti e comprensivi con i loro dipendenti. Le organizzazioni dei lavoratori furono fondate per questo: perché essi potessero essere protagonisti dei propri diritti e non dipendere, di volta in volta, da mutevoli favori.
Se non si assume compiutamente questa filosofia, si corre il rischio di rimanere pur sempre prigionieri del passato, piuttosto che mecenati di un’era nuova.

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