di Maria Pellegrini.

Continua senza sosta l’arrivo di migranti sulle nostre sponde e si rinnova tragicamente il naufragio delle imbarcazioni dei trafficanti di uomini con numerose vittime, alle quali ogni futuro è negato.

Il mare Mediterraneo (chiamato “Mare nostrum” dai Romani a partire dal 30 a. C. quando il loro impero si estese dalla Spagna all’Egitto) presentava, ai tempi delle navigazioni dei popoli antichi, rischi di naufragio molto frequenti. Su tutti coloro che si mettevano in mare per motivi commerciali, o per la speranza di arrivo in una terra mèta di salvezza, si affacciava la sensazione di andare incontro verso l’ignoto, tanti erano i pericoli che incombevano sui naviganti. Ma nel III millennio l’Europa non dovrebbe permettere che il nostro mare diventi la tomba di tanti migranti ammassati da spregiudicati avventurieri su imbarcazioni o gommoni stipati oltre ogni limite.

Attraversare il mare con le sue acque invitanti, ma infide, non solo nell’antichità ma anche in tutto il Medioevo rappresentò il tentativo coraggioso di affrontare l’ignoto per andare ad ampliare le proprie conoscenze, e sempre costituì per gli uomini una sfida eccezionale perché la grande distesa d’acqua è padrona, non è dato sapere cosa accadrà. Da sempre sinonimo di precarietà e rivolgimento della sorte e di impotenza per l’uomo, il naufragio ha significato per poeti, scrittori e artisti una metafora esistenziale di primaria importanza, dalle peregrinazioni marittime di Ulisse alle grandi trasvolate oceaniche dei tanti nostri emigranti nelle Americhe con la differenza che il migrante contemporaneo appare povero e disprezzato, il personaggio mitico di Ulisse è divenuto l’eroe universale dal “multiforme ingegno” che, in virtù della propria astuzia e tenacia e grazie all’aiuto degli dèi, riesce unico fra i compagni di navigazione a sopravvivere alle tempeste scatenate da Poseidone, il mitico re del mondo marino.

I Musei di tutto il mondo mostrano oggetti provenienti dai fondali marini, dalle reliquie di navi inghiottite dalle onde, testimonianze del passaggio di naviganti il cui percorso fu interrotto dalle tempeste della natura o da quelle degli uomini.

Come per la lirica d’amore, anche le poesie che affrontano il tema della morte trovano origine nella cultura letteraria greca arcaica. I morti erano ricordati in epitaffi, a volte scolpiti su vuoti sepolcri detti “cenotafi” (tombe vuote) innalzati in memoria di coloro di cui non era stato possibile ritrovare le spoglie. L’“Antologia Palatina”, una raccolta di epigrammi greci (oltre quattromila) contiene un intero libro, il VII, dedicato a epigrafi funebri, molte per ricordare proprio gli uomini colati a picco insieme alla loro nave investita da tempeste.

Nei ricordiamo alcuni:

“Tu che sempre affrontavi le tempeste e i venti invernali, nell’età che è ancora senza dolcezze di donna, morivi. Chiusero le onde del mare la tua adolescenza. (Anacreonte, VI sec. a. C.)

“O viandante che passi vicino al mio vuoto sepolcro, se arrivi a Chio, al padre mio annuncia che uno scirocco malvagio distrusse la nave, le merci e me stesso, e del “buon-cavallo” della sua vecchiaia non resta altro che il nome”. (Asclepiade, IV sec. a. C.)

“Tumulo, che la tua stele innalzi su questo lido tempestoso, dimmi quale uomo custodisci e chi sia il padre e la sua patria.[…] Un grande flutto lo rapì mentre affrontava le tempeste invernali”. (Leonida di Taranto, prima metà del III secolo a. C.)

“La forza e il vortice di un uragano del vento Euro, le onde e la notte quando fa buio al tramonto di Orione, mi uccisero. Scivolai dalla vita, navigando nel mar della Libia. Sono scomparso fra i gorghi delle acque, subito preda dei pesci. Questa pietra che dice di coprirmi inganna”. (Leonida di Taranto)

“Guarda a riva sbattuto sugli scogli, guarda lì dove si rompono le onde del mare ciò che rimane d’un misero naufrago.[…] Tutta è sconvolta l’armonia del corpo. Queste reliquie sparse, un tempo furono un uomo”.(Filippo di Tessalonica, I secolo d.C.)

 

La condizione del naufrago è, dunque, metafora della condizione umana, di una vita continuamente esposta a rivolgimenti inaspettati, di una situazione che raggiunge le manifestazioni più estreme della disperazione. Dalla Grecia antica fino ai nostri giorni la nave in balìa delle onde è intesa in senso allegorico: spesso ha simboleggiato la nave dello Stato, sballottata dai marosi delle agitazioni politiche.

Dopo Omero, questo tema viene elaborato per la prima volta in Grecia quando, una volta superato l’epica, si afferma un nuovo genere letterario che avrà molta fortuna nei secoli: la lirica. Ed è nella lirica ionico-attica che per la prima volta in un frammento di Archiloco (VII sec. a. C.) troviamo l’immagine della nave alla deriva, che cela il riferimento alla situazione politica contingente.

Tale allegoria la troviamo anche in Alceo (VII sec. a. C.) che in un suo carme paragona le tempeste del mare alle sciagure dei tiranni:

“Sono smarrito dall’impeto dei venti: da questa parte un’onda rotola; di là, un’altra onda. Nel mezzo noi, portati con la nera nave, fiaccati dalla tempesta indomita. Già l’acqua cinge il piede dell’albero, già tutta è strappata la vela: pende giù in grandi brandelli, cedon le scotte”.

Potrebbe essere la descrizione di una qualsiasi drammatica nave in balia della tempesta, ma noi sappiamo che sotto il velo della metafora si celava la rappresentazione di Mitilene, città natale del poeta, dilaniata dalle discordie suscitate dal tiranno Mirsilo.

Anche il più reazionario dei lirici greci, Teognide (VI se. a.C.), feroce assertore dei privilegi dell’aristocrazia, utilizza l’allegoria della nave alla deriva, per indicare la situazione della sua città, priva di un buon governo:

“Calate le vele bianche, andiamo alla deriva, via dal mare di Melo, a notte scura…il mare supera entrambe le murate, e qui non ci si salva”.

Orazio, poeta latino d’età augustea, riprende questo tema in un’ode immaginando che la nave dello Stato sia vittima della tempesta:

“Altri flutti riporteranno al largo la mia nave. Che fai? Guadagna in fretta il porto. Non ti accorgi che i remi sono infranti, l’albero s’incrina in balia dei venti”.

 

Nel mondo antico, il rischio del naufragio e della morte per mare era sentito come molto reale, e, viene in mente l’incipit del libro II del “De rerum natura” lucreziano, dell’età di Cesare; in quei versi il poeta immagina una scena che, per la potenza evocativa e le implicazioni simboliche, rivela la nostra fragilità di uomini:

“È dolce, quando sull’impetuoso mare i venti sconvolgono la distesa dell’acqua, osservare dalla terra la grande e penosa lotta di un uomo: non perché quel tormento sia una gioia e un piacere, ma perché è dolce vedere da quali mali si è indenni”.

Come Ulisse, anche Enea, l’eroe virgiliano, compie un lungo viaggio per mare, con una differenza: l’uno cerca di tornare in patria, l’altro fugge dalla sua città, Troia, in fiamme. La narrazione dell’“Eneide” si apre con la descrizione della tempesta e della violenza delle forze della natura che disperdono la flotta dei Troiani sulle coste dell’Africa:

“Le nubi d’improvviso strappano alla vista dei Téucri il cielo e il giorno; grava una nera notte sul mare. Tuona la volta del cielo e l’etere balena di fitte folgori, e tutto minaccia agli uomini una morte imminente”.

 

Il tema della morte e del disastro in mare è materia di molta parte della letteratura antica.

Nel romanzo latino “Satyricon” di Petronio (I sec. d. C.) i tre protagonisti, dopo varie avventure s’imbarcano su un mercantile ma arriva una bufera:

“il mare rabbrividisce, le nubi addensate da tutte le parti seppelliscono il giorno nelle tenebre. I marinai corrono trepidanti ai loro posti di manovra, e ammainando le vele le sottraggono alla tempesta. Ma non era un vento teso a sospingere i flutti, né il timoniere sapeva dove orientare la rotta. Ora le folate portavano alla Sicilia, ma più spesso era l’Aquilone, il padrone e il signore delle coste italiche, a volgere or qua or là la nave indifesa, e, ciò che è più pericoloso in ogni bufera, tenebre così fonde cancellarono la luce, che il timoniere non riusciva a scorgere neanche l’intera prua”.

Alla fine la nave cola a picco. La scena del naufragio è dominata dal cadavere del capitano dell’imbarcazione che approda sulla riva dove i tre sopravvissuti vedendo così muto, assente e riconciliato lui così iroso e protervo in vita, sono presi da umana pietà:

“Costui in qualche parte dell’orbe terrestre ha una moglie che lo aspetta tranquilla, e forse un figlio ignaro della tempesta, o almeno un padre da cui partendo s’è accomiatato con un bacio. Questi sono i progetti dei mortali [...] E non solo il mare si mostra così sleale con gli uomini. Uno mentre combatte lo tradiscono le armi, un altro lo seppellisce la rovina della sua casa, un altro ancora mentre s’affretta, sbalzato dal carro esala l’anima, il goloso è strozzato dal cibo, il frugale dal digiuno. Se fai bene il calcolo, il naufragio è dovunque”.

Il tema della morte, sempre presente nel romanzo, è stato considerato allegoria d’una irreversibile decomposizione dell’intera classe dirigente d’età neroniana.

 

Torniamo al presente con versi scritti dopo la morte di tanti migranti a largo di Lampedusa (2013): una delle più gravi stragi marittime degli ultimi decenni.

È uscito un ebook “Per i morti di Lampedusa, annegati da respingimento” dove sono raccolte poesie di eritrei, somali, iracheni, europei. Ne riportiamo due:

“Ascolta le onde, alte nere onde sbattono sugli scogli di Lampedusa, loro - i migranti ( 500 sono? ) schiacciati l’uno contro l’altro nella stiva colano a picco e annegano, ascolta le loro voci, Europa!”(di Giovanna Gentilini, poetessa e artista italiana)

“Sulle rive di Lampedusa sono sdraiati i resti delle nostre coscienze gonfie. Le rive di Lampedusa sono il viso sfigurato, gonfio e mutilato della nostra umanità, oggi!”(di Gassid Mohammed, poeta iracheno, professore all’Università di Bologna).

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