Le campagne di una volta

di Leonardo Caponi
PERUGIA - “Compagni, lavoratori!; partecipate uniti al comizio del Partito Comunista Italiano: parlerà il compagno on….”; “Amici e cittadini! Intervenite alla manifestazione dell’on…,che illustrerà le proposte della Democrazia Cristiana”: chi se le ricorda le auto (in genere di piccola cilindrata) tappezzate di simboli di partito, con l’altoparlante issato sul tetto, percorrere incessantemente da mattina a sera le vie e le piazze delle città? Quelle con la falce e il martello diffondevano a tutto volume le note di “Bandiera rossa”, quelle con lo scudo crociato rispondevano con “Bianco fiore”, mentre il Garofano socialista controbatteva con l’Inno dei lavoratori, prima che Craxi cambiasse un po’ le cose.
Le campagne elettorali di un tempo erano coloratissime, rumorose e invadenti. La carta era la dominatrice assoluta: carta per i volantini, i manifesti (negli gli spazi elettorali e spesso abusivamente “attaccati” altrove) e per i “santini” dei candidati; il comizio o l’assemblea costituivano l’arma sovrana. Un clima febbrile e una sorta di euforia collettiva contagiava, a partire da molte settimane prima del voto, tutto il corpo elettorale, sia quello che viene definito attivo (cioè i candidati e i dirigenti dei partiti, ritenuti principali responsabili del risultato) sia quello cosiddetto passivo, cioè i votanti. C’era la percezione che l’esito elettorale riguardasse tutti, o quanto meno la grande maggioranza degli elettori, che riponevano nella politica speranze spesso in conflitto tra loro (cambiamento o conservazione) ma una aspettativa comune, cioè il miglioramento della propria condizione.
L’”attivista” era il protagonista di quelle campagne. Era un volontario che, per tutto il tempo dei “comizi elettorali”, si metteva volontariamente e gratuitamente (spesso dedicandoci le ferie o una parte di esse) al servizio del proprio partito per i volantinaggi, il “lavoro capillare” e il “casa per casa”, l’organizzazione di manifestazioni e di tutto quello che una competizione elettorale richiede. Ogni partito aveva i suoi attivisti: in tutta Italia era un esercito di decine, centinaia di migliaia di persone, nettamente più numerose a sinistra e nel Pci che, non a caso, nella sua iconografia ufficiale, ha sempre fatto dell’attivista una figura da mito.
Ai tempi del proporzionale il “posto” del simbolo nella scheda, specie per i partiti di sinistra, aveva un’importanza fondamentale. Per molte tornate elettorali i successi del Partito comunista furono affidati anche alla celebre indicazione del “primo in alto a sinistra”. La “fila” per arrivare primi in tribunale a registrare il simbolo e la lista dei candidati cominciava mesi prima. E nonostante questo, la mattina della presentazione, si scatenava inevitabile una corsa tra i presentatori designati che, spesso aiutati dai rispettivi servizi d’ordine, si facevano largo nei corridoi del palazzo tra spintoni e colpi bassi. Quasi sempre era il Pci a prevalere, grazie alla sua efficientissima organizzazione, finché la Dc, signorilmente, decise di abbandonare la competizione e, valutando in fondo che l’ultimo posto fosse quasi equivalente al primo, cominciò ad aspettare “il minuto prima della chiusura” per presentare la sua lista elettorale.
I candidati erano selezionati con metodi diversi, che avevano però un tratto comune: cioè che a decidere era il partito e le sue articolazioni (organismi dirigenti centrali e periferici e assemblee degli iscritti). Si trattava, per intendersi, di partiti caratterizzati da una vita intensa e partecipata, con un corpo militante di per se molto vasto, rappresentativo di un elettorato ancora più ampio e di una “società civile” idealmente vicina, legato, in generale, da un rapporto di fiducia schietto e reale ai rispettivi gruppi dirigenti e leaders. La discussione era sui nomi dei candidati, ma anche sulla “politica” e una qualsiasi disgiunzione tra i due termini era da ritenersi impossibile. Questa “mediazione “ partitica tra candidato ed elettore, non era arbitraria; costituiva la garanzia per l’avanzamento di un disegno comune ed era finalizzata ad affidare la scelta dei candidati ad un complesso di “criteri” e non ad uno solo di essi che, divenendo dominante (ad esempio, la popolarità senza competenza, oppure la giovinezza senza serietà), avrebbe finito per essere distorcente.
Le piazze erano piene. La campagna elettorale in febbraio, col freddo dell’inverno sarebbe stata impensabile. Lo scioglimento delle Camere era temporalmente collocato in modo tale che, almeno prima di aprile, non si votasse. Nella piazza si sublimava la passione politica di grandi masse di cittadini ed elettori. La piazza regala emozioni e consente un rapporto diretto e ravvicinato con la gente e la vita reale. C’è chi sostiene che questa modalità di rapporto contenga la forma più alta di democrazia. I comizi e le assemblee erano numerosissimi e capillarmente distribuiti. La loro frequenza aumentava con l’approssimarsi del voto. La sera “della chiusura” il solo Pci, nella provincia di Perugia, riusciva a tenere di norma qualcosa come 250 comizi o riunioni pubbliche. In quell’ultimo venerdi, nell’arco temporale dalle 20 alla mezzanotte, si poteva assistere al rito del succedersi, nello stesso palco, degli oratori dei vari partiti. I loro confronti a distanza, ma in qualche caso anche fisicamente ravvicinati, costituivano ed erano attesi, come uno spettacolo, da un pubblico che si alternava in prima fila in base all’appartenenza politica. Era una platea non solo appassionata, ma anche politicamente colta.
Oggi, tutto questo non c’è più. La “fisicità” della campagna elettorale è scomparsa. Tutto è televisivo e, a volte, sembra che la campagna elettorale in quanto tale sia scomparsa, insieme alla sua dimensione di massa. E’ un male? Oppure hanno ragione quelli che dicono che tutte le epoche sono uguali e che non c’è, tra i periodi storici, distinzione di qualità?
Si possono avere idee diverse. La cosa certa è che, un tempo, c’era fiducia, oggi c’è disprezzo per la politica. Lasciamo stare le colpe. Di sicuro questo non è un bene.

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