di Maria Pellegrini

Tutto il mondo ha visto in foto o in video quei corpi ammassati e denudati di ufficiali turchi puniti da Erdogan perché considerati golpisti, un residuo arcaico che ricorda la gogna dei prigionieri costretti a sfilare sotto il giogo, un mezzo per impaurire, ostentare come monito e minaccia di un tiranno che schiaccia il suo popolo con pugno di ferro, feroce vendetta, spietata rappresaglia. Ma il “sultano”, così è stato ribattezzato il presidente turco che si vanta di essere stato eletto democraticamente, non si fermerà al rito dell’umiliazione, della degradazione dei vinti, delle solenni purghe iniziate a raffica, vuole la pena di morte, segno di un potere spietato e senza controllo.

È facile cadere nella tentazione di paragonare personaggi di Roma antica che si macchiarono di massacri e carneficine con i dittatori del nostra età. La storia di Roma antica ci regala una galleria di personaggi assetati di potere, disposti alle più mostruose vendette nei confronti dei nemici che hanno ostacolato il loro cammino. Dopo ogni tentativo di assalto violento al potere si verificarono le vendette dei vincitori, con reazioni spietate, disumane, uccisioni di massa e inaudite atrocità.

Quei prigionieri ammassati uno accanto all’altro seminudi, con le mani legate all’indietro e i volti tumefatti e umiliati, fanno tornare alla mente quello che avvenne nell’82 a.C. quando seimila uomini, in parte romani seguaci di Mario, in gran parte sanniti, sconfitti a Porta Collina (odierna zona di Roma, Porta Pia) e fatti prigionieri da Silla furono radunati nel Campo Marzio e massacrati.

Leggiamo in Plutarco nella “Vita di Silla” che i sanniti e i mariani furono battuti a Porta Collina e quasi completamente distrutti; alcune migliaia di essi caddero prigionieri, per ordine di Silla furono condotti in Campo Marzio, rinchiusi nel circo e con una crudele dimostrazione di implacabile ferocia massacrati. Silla intanto aveva convocato il Senato in un tempio vicino al luogo del massacro. “Mentre cominciava il suo discorso i soldati che ne erano stati incaricati cominciarono a infierire su quei seimila prigionieri. Le grida di tante persone scannate in uno spazio così ristretto, data la breve distanza giungevano naturalmente sino al tempio. I senatori ne furono terrorizzati, ma Silla non si scompose e continuò il suo discorso, limitandosi con fredda impassibilità a invitare i senatori a porre molta attenzione al suo discorso e a non preoccuparsi di quanto avveniva all’esterno per suo ordine: si stava semplicemente dando una lezione a un mucchio di malfattori.”

Riassumiamo, a questo punto, a larghi tratti le vicende che avevano portato a farsi la guerra Caio Mario e Lucio Cornelio Silla, due valorosi comandanti entrati sulla scena politica e militare romana dopo la morte dei Gracchi. Il contrasto tra i due condottieri che sfociò nella prima guerra civile combattuta a Roma (tra l’88 e 82 a.C.), ebbe inizio quando il Senato decise di affidare il comando della guerra contro il re del Ponto, Mitridate - che aveva invaso i possedimenti romani in Asia Minore - a Silla che in quell’anno era console e ben visto perché appartenente al partito aristocratico. Allora Mario, capo del partito democratico, desiderando quel comando riuscì con l’aiuto dei tribuni a toglierlo al rivale e a farselo affidare. Silla, che era impegnato in Campania a preparare la spedizione in Oriente, rientrò in Roma con il proprio esercito, s’impadronì della città, dichiarò Mario nemico pubblico costringendolo a fuggire e a ripararsi in Africa. Subito prese provvedimenti per indebolire il partito democratico, mise in Senato 300 nuovi membri scelti fra i suoi sostenitori, tolse il potere legislativo ai tribuni, quindi partì per l’Oriente per combattere contro Mitridate. Approfittando della sua assenza, Mario grazie all’aiuto del console L. Cornelio Cinna rientrò a Roma e con uguale ferocia trucidò i capi degli aristocratici (87 a.C.), la città fu sottoposta a un continuo massacro e saccheggio, Silla fu dichiarato fuori legge e la sua costituzione abrogata; nell’86 Mario si fece eleggere console per la settima volta, ma non poté godere il suo trionfo, perché la morte lo colse poco dopo.

Silla, sconfitto Mitridate (la cui resa fu durissima: settanta navi e 500 arcieri prelevati, e ritiro di Mitridate nei suoi confini iniziali), fece ritorno in Italia dopo aver reclutato mercenari in Macedonia e Tessaglia, pronto alla vendetta. Quando sbarcò a Brindisi per marciare verso Roma, le forze democratiche, per quanto superiori di numero, dopo la morte di Mario mancavano di un capo autorevole, capace di coordinarle e portarle alla vittoria, il figlio che aveva lo stesso nome, Mario, non era neppure l’ombra del padre. Silla disponeva di un esercito compatto e temprato e poteva disporre dell’immenso bottino di guerra. Per quasi due anni la penisola fu sconvolta da una tremenda guerra civile. Nell’82 si entrò nella sua ultima e decisiva fase. Ad essa intervennero i resti dell’esercito sannita (che avevano partecipato alla guerra sociale per ottenere la cittadinanza) ancora non sottomessi. Poté dirsi conclusa solo con la battaglia di Porta Collina nella quale i sanniti, uniti alle truppe mariane tentarono di entrare in Roma. Furono sconfitti e per ordine di Silla trucidati tutti nel Campo Marzio, come si è detto. La battaglia di Porta Collina fu aspramente combattuta ed estremamente sanguinosa; secondo lo storico Appiano i morti complessivi delle due parti furono di circa 50.000 uomini.

Roma cadeva quindi sotto l’incontrastata dittatura di Silla: la carneficina fu indiscriminata. Di Mario vennero distrutte tutte le statue e le immagini in città, uccisi i suoi parenti, centinaia di teste di mariani sfilarono appese a pali davanti alla casa di Silla. Il terrore e il massacro fu tale che i più coraggioso tra i senatori e i cittadini romani chiesero al dittatore di compilare un elenco di nemici da abbattere, e poi tornare alla normalità. Nacquero così le liste di proscrizione. Uccisioni legalizzate: elenchi terrificanti venivano appesi nel Foro, e chi vi fosse incluso perdeva ogni diritto pubblico e privato, poteva persino essere sgozzato in mezzo alla strada senza che il carnefice fosse punito. Le proscrizioni durarono sei mesi, fino al giugno dell’81: morirono 90 senatori, 15 ex consoli, 2600 cavalieri. In totale perirono circa 5000 persone. Lo stesso Silla e i suoi seguaci si arricchirono comprando a poco prezzo i beni dei proscritti. Silla non si limitò alla repressione contro i vivi, il cadavere del vecchio Mario fu esumato dalla tomba e gettato nell’Aniene. Dopo la vendetta, impose il suo ordine. Formalmente, un ritorno al passato aristocratico, sostanzialmente una dittatura. Il Senato fu allargato da 150 a 600 membri, indebolito e suddiviso in fazioni, il tribunato della plebe diveniva una carica di nessun valore, dopo la quale nessun'altra carica poteva seguire. Qualsiasi forma di opposizione finì. Con un plebiscito tutti i poteri, costituente, legislativo, esecutivo, giudiziario erano nelle mani del dittatore che celebrò il trionfo per la vittoria su Mitridate (27 e 28 gennaio 81 a.C.) e si fece attribuire l’appellativo di “Felix” per sottolineare come la fortuna lo avesse sempre assistito.

Una sua statua equestre dorata fu posta davanti ai rostri, con l’iscrizione “a Cornelio Silla Comandante Felice”. Con questo soprannome, infatti, lo chiamavano gli adulatori per aver avuto successo sui suoi nemici; titolo che lo avvicinò agli dei: “Infatti - scrive il Carcopino - il vero fondatore del culto imperiale non fu Augusto, che lo regolò, e neppure Cesare […] ma Silla, che per primo nella storia romana innalzò il proprio potere al di sopra delle contingenze umane, ponendolo sul piano delle cose divine”.

Nel 79, con sollievo e costernazione di tutti, depose la dittatura consentendo libere elezioni consolari e si ritirò a vita privata, forse presagendo la sua fine. Infatti dopo un anno si ammalò e morì. Molti chiesero che gli fossero negati gli onori funebri ma per intercessione di Pompeo il cadavere fu trasportato a Roma dove ricevette le più solenni esequie. Sulla sua tomba nel Campo Marzio si leggeva un epitaffio composto dallo stesso Silla: “Nessun amico lo superò nel fare il bene e nessun nemico nel fare il male”.

Plutarco scrisse che “Silla per tutta la vita coltivò le proprie depravazioni e danneggiò Roma impoverendola con i suoi abusi”.

 

Dopo quasi un secolo la strage fu ricordata dal poeta Lucano (39-65 d.C.) nel suo “Bellum civile”:

“Quanti mucchi di cadaveri giacquero a Porta Collina,/ allorché la capitale dell’universo e il dominio del mondo /quasi mutarono sede e i Sanniti sperarono d’infliggere/ ai Romani ferite più gravi di quelle inflitte alle Forche Caudine!/ A così immense stragi si aggiunse la vendetta di Silla./ Egli tracannò quel po’ di sangue che restava a Roma /…/Allora si scatenarono gli odi, e sciolta dal freno delle leggi / s’avventò l’ira. Non tutto dipendeva da uno solo, /ma ognuno compiva misfatti per sé. Il vincitore /aveva impartito ordini una volta per tutte. Il servo /affondò l’empio ferro nelle viscere del padrone. I figli /grondavano di sangue paterno; ci si disputò la testa recisa /del genitore. I fratelli guadagnarono la taglia sulla vita dei fratelli. /Le tombe si riempirono di fuggiaschi, si mischiarono corpi vivi / ai sepolti, e i covi delle fiere non bastarono alla moltitudine. (B. C, II, vv. 134-153)

Nota: Immagine di www.arte21.it

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