di Isabella Rossi

Perugia - A 13 anni madre. A 15 anni madre per la seconda volta. A 18 anni il matrimonio nel nucleo familiare dei suoceri. Quello stesso dove la minore era stata accolta e cresciuta per volere dei suoi genitori. Quello dove è diventata madre adolescente, prima di ancora di poter conoscere e decidere cosa fare della proprio vita. Ma la libertà di scelta di una donna viola i codici mafiosi e viene punita con la morte. Un atto feroce ma esemplare, perché perdere il controllo di una “fimmina” sgretola il potere patriarcale dalle fondamenta.
Succede in Italia, più precisamente in Calabria. Ma la distanza sembra superare i confini geografici per allontanarsi secoli e secoli dalla civiltà. Sembra, perché in effetti le storie di “Fimmine ribelli” (Rizzoli, 2013), raccontate da Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso, ad una gremita Sala dei Notari, sabato scorso, sono storie vicine. A nasconderle non è solo l’omertà di chi ha tutto l’interesse a non parlare. Ma l’assenza di Stato e l’assenza di interesse da parte di quel mondo civile troppo spesso impegnato a guardare fuori casa dimenticando l’inferno che si consuma dietro la porta. “Come se quelle storie di donne non ci appartenessero, non fossero storie nostre, storie italiane”.

"Uccidete mia nipote" E intanto in Calabria donne coraggiose trovano il modo di ribellarsi alle leggi della n’drangheta e per farlo si alleano con il nemico, lo Stato. Così facendo sfidano la morte. Una morte che può arrivare per mano dei propri familiari o addirittura dei propri figli. Mentre ad emettere la sentenza inappellabile “è stata la nonna, quella stessa che l’ha cresciuta ed amata quando era una bambina”. “Queste donne nel 2013 sono donne oggetto, devono stare a casa e non devono usare facebook. Chi lo fa è svergognata, tradisce e viola il codice d’onore. In Calabria esiste ancora. Vengono uccise secondo la legge, vengono uccise per piccole cose. Internet ha fatto una grande rivoluzione. Hanno scoperto che la loro vita non è una cosa normale”, ha raccontato Abbate. Ma non ci sono solo le leggi mafiose. C’è tutto un mondo di professionisti, medici ad esempio, che rendono possibile la segregazione e le violenze. Magari prestando cure a domicilio. Lo raccontano gli atti giudiziari studiati dal giornalista e su cui si basano le storie di un libro che sfida i silenzi e l’ignoranza. All’incontro, ospitato dal Festival del giornalismo che proprio domenica scorsa ha concluso la sua settima edizione, ha partecipato Piero Melati, giornalista di La Repubblica, e Pierfrancesco Diliberto, alias Pif, a cui è stato fatto l’invito di girare una puntata del suo “Testimone” proprio in Calabria.

 

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