L’Italia deve stare dov’è
di Franco Arminio
Da ragazzo ero sempre molto emozionato a Capodanno. Sentivo il peso di cominciare col passo giusto. E pensavo alle cose che accadevano, un saluto, un sorriso, la maglia che mi ero messo. Cercavo di mettere nel pendio giusto la giornata, sperando che poi avrebbe guidato tutte le altre, come se il primo gennaio fosse il capo della tribù delle giornate, in grado di portare con sé tutto il corso dell’anno. Portarlo dove? Pensavo alla mia inquietudine, al mio affanno. Ne ero già stanco allora, a quindici, a vent’anni. Non mi piacevano i veglioni perché ero timido e non sapevo ballare. Ho passato molte volte l’ultimo giorno dell’anno nell’osteria di famiglia. Quella sera c’era una sorta di chiusura, entravano solo alcune persone, che erano una sorta di ibrido tra l’amico di famiglia e il cliente. Qualcuno portava il panettone. Mio padre tirava fuori uno spumante comprato chissà quando. Il momento degli auguri era sempre un po’ mesto. Ed è stato così anche negli anni seguenti, anche quando ho cominciato a uscire, a fare il capodanno che facevano gli amici. Allora nel mio paese stavamo combattendo contro la ricostruzione post-terremoto fatta dal sindaco che era anche senatore e ministro. Facevamo un giornale molto agguerrito. Contestavamo gli altri e ci contestavamo tra di noi. Ogni giornata era una fitta trama di recriminazioni e rancori. Gli anni passavano, dall’ultimo dell’anno si arrivava al primo, il paese continuava a sfigurarsi e noi alla spicciolata cominciammo a sposarci. Il gruppo degli estremisti, così ci chiamavano, perdeva pezzi ed entusiasmo, ma eravamo ben lontani dall’autismo corale di questi anni.
Pensare a un anno nuovo per me significa adesso pensare non solo alla mia vita, ma a quella dei paesi. Negli ultimi dieci anni credo di aver visto più di mille paesi e me li porto dietro, come porcellini al guinzaglio o li lascio razzolare nella mia mente come galline o li tengo al chiuso nella stalla quando nevica. Mi pare che la paesologia sia una sorta di aristocrazia della desolazione. Ed io un nuovo barone, un immaginario padrone dei paesi del sud interno.
Per l’anno nuovo non ho un augurio che sia buono per tutti. Mi auguro che alcuni perdano i loro ultimi abitanti e vengano poco alla volta riconsegnati alla natura. Trovo affascinanti i luoghi in cui gli uomini si arrendono. Da tempo ho l’idea di fare una guida ai paesi che si sono arresi, i paesi della bandiera bianca. Non è un destino per tutti. Ci vuole vocazione. Ci vuole che le città siano lontane e anche le pianure. E che i politici siano particolarmente accidiosi.
Oltre ai paesi della bandiera bianca vorrei fare i miei auguri ai paesi truccati, quelli che si sono fatti dare il nome di città: ci sono le città dell’olio, quelle del vino, quelle dei martiri, quelle dei santi. Qui l’augurio è che la confezione corrisponda alla sostanza. Troppo spesso i paesi che vengono riconosciuti come belli è come se perdessero forza. Diventano vanitosi, compiaciuti. E la vita evapora, diventa il sugo insapore che portano a tavola nelle città.
Sono anni che mi chiedono se i paesi hanno un futuro e sono anni che rispondo in maniera umorale, secondo l’estro del momento. Non sono sicuro di militare per la salvezza dei paesi, per il fatto che non so bene cosa sia la salvezza dei paesi. A volte penso che la salvezza sia la perdita di ogni attenzione da parte della politica. Mi pare che il successo economico produca quasi sempre bruttezza urbanistica e una vita rissosa e incupita. D’altra parte non nutro molta simpatia per i paesanologi che quando si mettono al capezzale di un paese fanno sempre lo stesso sforzo di girare la testa verso il passato. Si fanno tante sagre, mai l’unica che servirebbe, la sagra del futuro.
Io mi auguro per l’anno nuovo un’epidemia di futuro. Vorrei vedere i ragazzi che si fanno dare un pezzo di terra e si mettono a coltivarlo. Vorrei vedere le scuole aperte tutto il giorno perché ai ragazzi non basta quello che si fa la mattina, vogliono fare altro, vogliono fare di più. Il futuro dei paesi sarebbe non seguire la mestizia degli amministratori che vedono solo problemi e mai soluzioni. Un paese in cui si gioca, si fa l’amore, si ha cura di mangiare benissimo e di leggere e di passeggiare lungamente. E tutto questo sia visto per quello che è, pura avanguardia.
L’anno nuovo sarebbe buono se fosse un congedo dalle milizie del rancore per confluire nell’esiguo drappello di chi ammira, di chi ringrazia, di chi è grato. Più che in Europa l’Italia deve stare dov’è: nei suoi paesi, sulle sue montagne, vicina al suo mare. Spero che l’anno nuovo si parli più di geografia e meno di soldi. Il tema dei luoghi prenda il posto del tema dello spread. Non si può uscire subito dalla dittatura dell’economia, ma almeno si può sfoltire la sua presenza sui giornali e in televisione.
L’Italia è bellissima dove è meno battuta. L’Italia non ha bisogno di questo infinito ragionamento su stessa e sulla propria crisi. Piuttosto ha bisogno di sguardi, di affetti, di gentilezza e di garbo. Il futuro non può che essere la democrazia locale. Costruire un nuovo modello di società luogo per luogo, in un disegno in cui ogni territorio è chiamato a tirare fuori le sue vocazioni. Abbiamo un grande patrimonio di differenze e le stiamo piallando in una giostra di frasi generiche e astratte. Le persone, ognuno nel suo ruolo, devono liberare energie che adesso sono bloccate. Devono disegnare le traiettorie della loro vita fuori dalle cornici delle agende che leggiamo in questi giorni.
Il futuro di cui abbiamo bisogno è anche ignorare la melma mediatica in cui da anni zampettano i protagonisti della politica. Dovremmo aver cura di lavorare e svagarci senza farci tirare dentro questa marea opinionistica che opacizza ogni cosa. Più che Monti e Berlusconi abbiate cura di osservare la muta lussuria di una rosa.

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