Sud, quattrocento anni prima del baratro
di Franco Arminio
Il Sud secondo i ricercatori sarebbe indietro di 400 anni rispetto al Nord. La prima reazione quando senti una notizia del genere è che il peggio tende sempre a peggiorare. Da quando si è fatta l’Italia si è creata una sorta di opera collettiva che ha messo il Nord sopra e il Sud sotto. Come se la collocazione geografica già parlasse da sola e definisse una subordinazione obbligata. Questa col tempo è diventata una profezia che si autoavvera. In pedagogia si chiama effetto alone. È più facile confermare un giudizio positivo che smentirne uno negativo. Allora immaginiamo il Sud e il Nord come due compagni di banco, messi insieme senza che nessuno lo volesse da un piccolo Stato che governava il Piemonte. Lo Stato unitario si è comportato come un insegnante che ha sempre considerato il Nord come un alunno più laborioso e in linea con i programmi. Il Sud è sempre stato l’alunno che non segue, l’alunno che accumula ritardi. E di questo passo siamo arrivati ai quattrocento anni di cui si parla adesso. In realtà i due alunni avrebbero bisogno di un altro insegnante, cioè di uno Stato e dunque di una classe politica che consideri i due alunni sullo stesso piano. E una volta accertato che su alcune cose il Sud è troppo indietro rispetto al nord si dovrebbe fare quello che ha fatto la Germania dell’Ovest coi cugini dell’Est, un vero investimento straordinario. Invece al Sud l’intervento straordinario, quando c’è stato, in anni ormai lontani, era la semplice sostituzione di quello ordinario che non c’era mai stato. Era un investimento che non mirava a ridurre le differenze, ma a dare soldi ai potenti meridionali in modo che potessero mantenere il loro potere e continuare a fare gli interessi settentrionali. I democristiani del Sud che spesso hanno governato a Roma, basti pensare a De Mita, in realtà non erano uomini potenti, perché il potere non lo avevano strappato a nessuno, semplicemente lo gestivano per conto terzi, per contro dei famosi poteri forti che erano e restano legati al Nord.
Il Sud era in ritardo perché scambiava le elemosine per fortune. Adesso questo schema si è rotto e comincia a farsi strada la percezione che chi è avanti in realtà è più avanti sulla via del baratro. Il mezzogiorno una volta esportava le sue braccia e anche i suoi talenti, adesso si è aggiunta l’esportazione delle mafie.
È chiaro che i governi degli ultimi vent’anni hanno trascurato il Sud per compiacere la Lega. Come stupirsi a questo punto che vecchi divari si siano allargati? Però in questi anni si è allargata anche la crisi del modello basato sul binomio produzione-consumo. E il Nord ha scoperto di aver consumato la sua terra e la sua aria. E da questo punto di vista il divario andrebbe rovesciato. È il Sud che è più avanti, nonostante i guasti prodotti da quelli che lo volevano assimilare al Nord. Insomma non possono esultare né i padani e neppure i neoborbonici. L’Italia è unita, ma si è unita nello scontento. Ogni città e ogni paese è una sagra dello scontento. I padani si lamentano che pagano le tasse per gli scansafatiche meridionali. Questi si lamentano che non c’è lavoro, ma mancano anche i treni e tutte quelle cose che danno linfa costante al vittimismo meridionale.
Forse quello che il Censis non riesce a fotografare è la bancarotta antropologica degli italiani. Lo fece Pasolini a suo tempo, quando ancora non c’erano Formigoni e la Polverini. Ci vorrebbe un rapporto per illustrare il nichilismo di massa della nostra società, anche quella che prende ordine dai poteri ecclesiastici. Altro che Sud e Nord, altro che vantaggi e ritardi. La faccenda è drammaticamente capillare in tutta la nazione. Al Nord i luoghi più ricchi hanno perso l’anima. Al Sud dove sono arrivati i soldi è arrivato anche lo scempio. Forse il compito di una società oggi non è avere un motore che spinge più forte, ma un volante per sterzare. È quello che si è perduto e non può essere certamente sostituito con il volante di carta rappresentato dalla “crescita”.




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