"La libertà si chiama Jaipur",
Il romanzo biografico e storico al tempo stesso, è incentrato sulle avventurose
vicende del geologo ebreo di Perugia, zio dell'autrice, Gabor Dessau, durante
gli anni della persecuzione e della guerra, ricostruite grazie ai suoi diari e
a numerosi documenti d'archivio fra Europa, Etiopia, Israele e India: il
viaggio di un infaticabile geologo al centro della storia, alla ricerca della
propria identità di uomo e di ebreo, oltre il tradimento della persecuzione, i
clamori confusi della politica, la guerra, il fallimento dell'esperienza
coloniale, al crepuscolo della vecchia Europa, fra i primi vagiti dell'Asia
intensa e indipendente.
Di seguito la recensione di Letizia Cerqueglini ella Freie Universität, Berlino
"La libertà si chiama Jaipur" è un romanzo d'avventura, un romanzo di formazione e la cronaca tumultuosa del Novecento, un secolo lanciato nel corso del tempo a velocità folle, ma le cui ombre trascorrono lentissime: forse è tutta un'era, la più lunga, estenuante, del mondo.
Le ere sembrano infinite, immemori come le generazioni dei vetusti patriarchi biblici, non è possibile immaginarne l'inizio e la fine, i terremoti, gli sconvoglimenti, ma a volte è concesso salire sulle montagne ad osservarne gli effetti geologici, dominare il complesso scenario e rigenerarsi godendo la saggezza solidificata del tempo.
Salendo sulle montagne e scendendo nelle miniere di tre continenti, inseguendo con incredibile attaccamento la sua vocazione professionale, il protagonista del romanzo, il geologo Gabor Dessau, viaggia rapidissimo alla scoperta di sé stesso nel baricentro mobile del Novecento.
Gabor Dessau nasce da uno scienziato e un'artista ebrei, Bernardo Dessau ed Emma Goitein, nella Perugia dei primi del Novecento, una città sognante nel clima spensierato e salottiero della Belle Epoque, nel trionfo dello sfarzo austero delle avanguardie artistiche e nell'ottimismo positivista dei decenni postunitari, che sostiene con slancio fideistico l'avanzata fatale e inarrestabile delle scienze e l'irresistibile progresso della civiltà moderna.
Paure ed entusiasmi percorrono e travagliano la nuova vecchia Europa, presa fra la tentazione spaventata del socialismo e le lusinghe colonialiste dei dittatori, alla ricerca smaniosa e convulsa di un' identità rinnovata, per il cui acquisto il bagno di sangue delle trincee non era bastato.
"La libertà si chiama Jaipur", di Gabriella Moscati Steindler, nipote del protagonista, è un docu-romanzo, (dato che esiste il genere del docu-film), cioè una storia bella e documentata, filologica, ricostruita dalle fonti di archivio e dalle memorie personali. E' al tempo stesso il romanzo di formazione di un mondo che attraversata la guerra più tremenda della storia, si rigenerava con grandi aneliti civili e speranze di liberazione da ogni dittatura, e il Bildungsroman di Gabor, il giovane studioso e l'ebreo errante.
Il problematico acquisto dell'identità è la trama segreta del romanzo, che vede il suo incipit nell'avvenuta promulgazione delle leggi razziali in Italia.
La ricerca dell'identità è un'unica, toccante, storia su più piani, personale, nazionale, collettivo, universale, che si intersecano drammaticamente, si confondono, si complicano, si esaltano nelle pagine dei diari di Gabor: la ricerca dell'identità che era degenerata nell'ubriacatura nazionalista dei neonati stati europei, verso l'abisso del razzismo e della guerra; la ricerca dell'identità dei paesi in lotta contro le potenze coloniali dopo la fine del secondo conflitto mondiale; la ricerca dell'identità degli Ebrei europei, cacciati dalle proprie patrie e perseguitati dai propri connazionali; la riflessione sull'identità ebraica che cresceva impellente fra la diaspora e gli albori dello Stato di Israele, che raggiungeva allora l'indipendenza; la ricerca della propria identità di un giovane italiano perseguitato dai propri connazionali perché ebreo, eppure convinto italiano, fiducioso e fedele alla patria nonostante il rifiuto subito, che troverà il modo di servire con scrupolo dalle colonie africane dove prenderà servizio, per poi divenire prigioniero inglese, sospettato per il suo nome tedesco, e che avrebbe trovato, in virtù delle sue competenze professionali, un paradiso accogliente a Jaipur, nell'India intensa, sontuosa e opulenta di sensazioni, impegnata della conquista dell'indipendenza, che di lì a poco avrebbe abdicato alla convivenza pacifica di tutte le fedi dilaniandosi in tremendi conflitti di religione e lo avrebbe rifiutato, perché europeo e, dunque, colonizzatore.
La storia si struttura in tante sequenze, come quelle in cui Popper scompone le fiabe, in un percorso che conduce dalla rottura di un equilibrio conquistato a fatica, al travisamento della propria identità, alla reintegrazione in un nuovo ordine, alla costruzione di un nuovo equilibrio, ad una nuova espulsione, e così via, in un infinito ripetersi di cicli e di epoche, una ripetizione che, forse, non arriverà mai alla conquista di un equilibrio stabile, ma almeno immagina un equilibrio dinamico nel divenire.
E sembra il tentativo antico come il mondo, come il primo viaggio dell'annoso, vestusto, padre Abramo, e i mille viaggi dei suoi figli ebrei, di tracciare una rete di percorsi, di sentieri, di circuiti, di fare così una mappa del mondo, di tessere una rete con l'acciaio indistruttibile della fantasia e della speranza, per rendere accettabili, se non comprensibili, le vicende complicate e dolorose della storia.
Per riconoscersi in una identità e non perdere il filo nel labirinto della storia: come salire in alto sul monte Tulului, dove Gabor lavorava, in Etiopia, o come alzare lo sguardo alle piramidi che costruirono i padri attraversando l'Egitto nel trasferimento verso l'India. Gabor non dimentica la pietas religiosa della sua famiglia, cerca luoghi ebraici, comunità, memorie, le perde, si perde, le ritrova, si ritrova, ricorda il viaggio di Abramo, la promessa della libertà come unica bussola, e la ripercorre, come ebreo, come uomo, dentro un mondo che compie lo stesso cammino, incessantemente, attraverso un'era lungamente assorta in quella ricerca, il Novecento, chiamato, ecco, a ragione, "il secolo ebraico".

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