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La dinastia dei Flavi (Vespasiano,Tito e Domiziano) affonda le sue origini in Umbria. La madre dell’imperatore Vespasiano, Vespasia Polla, era infatti originaria di Norcia ed era perciò la nonna degli imperatori Tito e Domiziano Le origini dei Vespasi sono narrati da Svetonio che ci racconta dei monumenti e degli edifici eretti in onore dell’antica famiglia, tra Norcia e Spoleto. Tito Flavio Vespasiano, nacque nel 39, primogenito di Vespasiano e di Flavia Domitilla Maggiore. Crebbe assieme al figlio dell’imperatore Claudio, e il giovane Britannico. Quando Britannico morì avvelenato da Nerone, si trovava anche egli al banchetto e bevve una parte della pozione avvelenata subendone pesanti conseguenze per diversi mesi. Rimase sconvolto anche dall’atteggiamento dell’imperatore, che osteggiava indifferenza mentre il suo amico Britannico moriva. La carriera militare di Tito inizia come tribuno con le legioni in Germania superiore, intorno al 60/61e in Britannia nel biennio successivo, fu in seguito nominato legato al comando di una legione nella Giudea, la XV Appollinaris, senza essere stato pretore come prevedeva la legge. Gli storici hanno cercato di attribuirgli gesta eroiche, però può nascere qualche dubbio, in quanto sulle rive del Reno le armi tacevano, quindi il giovane rampollo aveva ben poche possibilità di mettersi in mostra. Dopo quegli anni si può supporre che abbia svolto il ruolo di questore e poi di edile. L’Imperatore Nerone, nel 67 d.c., dovette affrontare il problema della Palestina. Gli ebrei non avevano accettato il dominio romano, né i romani avevano compreso appieno la suscettibilità ebraica in termini di religione, di tradizioni, di orgoglio. Situazione complicata dalle insanabili rivalità tra le diverse sette religiose, nonché dello scontro tra le classi povere e quelle più abbienti, che avevano sposato la causa dell’imperialismo di Roma attirando su di loro una carica di odio profondo. Nel 66, l’incompetenza e l’arroganza, del governatore romano della Giudea, Gessio Floro, portò alla rivolta le popolazioni guidate dagli zeloti. Verso la fine del 66, Nerone fu indotto a ripescare un capace militare caduto in disgrazia: Vespasiano, che si trovava in una sorta di esilio in Grecia. Comunque non un personaggio di primo piano, ed è stato ipotizzato che Nerone abbia operato una scelta simile proprio per evitare di fornire un potente esercito,a un potenziale rivale. A disposizione aveva non meno di sei legioni: la X Fretensis, la XV Apollinaris, la XII Fulminata. la V Macedonica, XII Cyrenaica, la XXII Deiotatiana e quindi mezzi ingenti. La scelta di Nerone rappresentò un’opportunità enorme sia per Vespasiano che per il figlio Tito. Alle legioni romane si aggiunsero le truppe ausiliarie dei sovrani filo romani: Malco II di Nabatea, Caio Giulio Seoma di Emesa, Caio Giulio Antioco IV della Commagene, Marco Giulio Agrippa II, raggiungendo 60.000 uomini a disposizione di Vespasiano. Il comandante in capo decise di non puntare subito su Gerusalemme con la regione disseminata di roccaforti controllate dai partigiani ebrei, che avrebbero potuto ostacolare le comunicazioni e i rifornimenti nel corso dell’assedio della capitale; l’obbiettivo, pertanto fu quello di riportare sotto il controllo di Roma l’intera Giudea, prima di concentrarsi su Gerusalemme. Andrea Frediani, così giudica l’opera di Tito: “…… tuttavia, a ben guardare solo a Jotapata risultò in qualche modo determinante nella caduta del caposaldo, con un’azione, peraltro, da coraggioso subalterno, più che da comandante. A Jafa non fece nulla più che presenziare alla vittoria, e forse anche a Gamala, a Tarichea mostrò un certo talento come condottiero, infondendo la giusta determinazione alle truppe, ma si lasciò scappare i promotori della ribellione, e il padre ci mise una pezza; lo stesso, peraltro, avvenne a Gischala,a testimonianza di una certa sprovvedutezza e di una inesperienza marcata, che un solo anno di campagna da generale subalterno non poteva colmare. Nel complesso, poi , si trattava di molto fumo e poco arrosto, nel senso che i suoi compiti, ancorché connessi ad azioni di rilievo, sembrano di una difficoltà assai modesta, a paragone di quelli affidati agli altri alleati, che compivano il grosso del lavoro per poi lasciare la gloria al figlio del comandante in capo”. Comunque in Giudea, favorito da un atteggiamento benevolo da parte dei generali del padre Vespasiano, in qualche maniera riuscì ad essere presente in gran parte delle azioni decisive per la conquista di diverse città e roccaforti. Nel 68 prosegue la strategia di Vespasiano con tante operazioni in Samaria, Perea, Indumea, e in Nabatea. Quindi con il territorio circostante sotto controllo, il comandante romano poteva ora circondare la capitale. Alla fine giugno arrivò la morte di Nerone. Tito era stato inviato dal governatore della Sira, Caio Licio Muciano, per affrontare gravi problemi politici. Era la prima volta dalla morte di Giulio Cesare che nessuno sapeva chi potesse legittimamente rivendicare la successine al potere. Anche in Giudea, in attesa di notizie, tutto si fermò per verificare cosa stesse succedendo a Roma. Nel frattempo era diventato imperatore Galba, che non rinnovò l’incarico a Vespasiano. Tito fu inviato a Roma a perorare la causa del padre, ma arrivato a Corinto, in Grecia, sopraggiunse la notizia che l’imperatore era stato assassinato dalla lotta in corso tra Otone e Vitellio per la corona imperiale e tornò indietro. Nella scontro tra Otone e Vitellio, perché Vespasiano doveva tirarsi indietro? Fra i governatori delle provincie d’Oriente si definì l’accordo di proclamare imperatore Vespasiano e in questi negoziati Tito ebbe un ruolo di primo piano, mettendo in mostra una grande capacità diplomatica. L’accodo fu stipulato a Cesarea Marittima. Vespasiano possedeva ben sette legioni, l’appoggio del potente governatore della Siria, Muciano, e di due influenti ebrei: il re Agrippa e il prefetto d’Egitto Giulio Alessandro. Dopo il suicidio di Otone, nell’aprile del 69, il gruppo che aveva eletto Vespasiano diede formale appoggio al debole Vitellio. Il primo luglio, il prefetto d’Egitto proclamava ad Alessandria Vespasiano imperatore, con relativo giuramento di fedeltà delle legioni egiziane, che si andavano ad aggiungere a quelle della Siria e della Giudea. Vespasiano era partito dalla Grecia due anni prima per la Giudea come un generale senza grandi pretese ed era diventato il pretendente più serio all’impero. Andrea Frediani, così scrive:”Entro la fine del mese, a Beirut, si convenne che Muciano avrebbe marciato contro Vitellio, Vespasiano si sarebbe sposato in Egitto per controllare gli invii di grano a Roma e usarli come arma di ricatto; a Tito veniva affidata la conduzione della guerra di Giudea, con il comando esteso anche alla Siria,ma con il più esperto prefetto dell’Egitto, che aveva militato agli ordini di Gneo Domizio Corbulone, il condottiero più illustre del suo tempo, quale capo di stato maggiore. Il colpo di stato fu preparato nei minimi particolari, al punto che, da Alessandria, dove padre e figlio si spostarono, i congiurati progettarono anche un’invasione dell’Africa nell’eventualità di estendere il blocco del vettovagliamento alla città capitolina; concepita con una simile cura, l’impresa non poteva fallire, e infatti nell’arco di poche settimane Vespasiano poté impossessarsi senza grandi sforzi del trono. Nell’estate del 69 Vespasiano affidò al giovane Tito l’incarico di reprimere la rivolta degli Ebrei. Nel 70 dopo quattro mesi di assedio, le legioni di Roma espugnarono Gerusalemme. In quella circostanza fu distrutto il Tempio, una vicenda enorme, anche dal punto di vista simbolico, che fece sentire la sua eco per secoli. “La Giudea era in rovina, la sua popolazione era diminuita di un terzo, una nuova diaspora ebbe luogo. Il sinedio spariva, la liturgia del tempio era soppressa e fu vietato di costruire un nuovo luogo di culto. Il didrammo (l’imposta che i giudei pagavano al tempio) doveva d’ora in poi essere versato ad una nuova cassa il ficus Indaicus, a vantaggio del tempio di Giove Capitolino. La provincia divenne pretoria (Leglay-Voisin-Lebohec). “ …… distruggendo il tempio di Salomone rapinandone il tesoro e ogni altro arredo prezioso e accanendosi contro i prigionieri, ai quali prima erano amputate le mani e poi erano crocifissi. Un’impresa folle. Complessivamente annientò un milione di giudei che avevano combattuto per la libertà” (A. Spinosa). La conquista di Gerusalemme procurò a Tito una straordinaria popolarità e quindi grandi onori, ma concluse la sua breve carriera di condottiero. In Egitto, fu incoronato con un diadema, e il suo nome iniziò ad essere associato al termine di “imperator”, riservato agli imperatori regnanti. Inoltre il Senato gli concesse il trionfo, poi celebrato in maniera congiunta con il padre. Trionfo ricordato nei celebri bassorilievi dell’arco di Tito a Roma. “i gradi successi militari fecero sorgere il sospetto che potesse mettersi in competizione con il padre per il potere. Ma furono tutti sospetti infondati, la sua vita politica fu contrassegnata da una grande lealtà e da una fedeltà incrollabile nei confronti di Vespasiano.” (M. Grant) Vespasiano sul punto della successione fu sempre chiaro ed esplicito, inequivocabilmente aveva indicato Tito suo rappresentante ed erede dinastico. Tito è indicato, già nel 71, sulle monete come imperatore designato. Nel 70 era collega di Vespasiano nel consolato, e poi nella potestà tribunizia e nella censura (71,73-74). Ricoprì il ruolo di prefetto del pretorio, ed esercitò tale funzione con grande rigore e spietatezza. Con il padre Vespasiano ricoprì per ben sette volte il ruolo di console, per ben nove anni governò l’impero con lui. “Addossatosi quasi tutti gli affari di stato, redigeva in nome del padre lettere ed editti, pronunciava orazioni in Senato, tanto più che per un certo periodo, dopo la milizia e prima della guerra giudaica, aveva molto onorevolmente professato l’avvocatura” (Furio Sampoli). Tito ebbe due mogli. La prima era stata Arrecina Testulla, dopo la morte di questa si sposò con Marcia Furnilla da cui ebbe l’unica figlia, Flavia Giulia. Divorziò da Marcia Furnilla due anni dopo. Nel 64/65 s’innamorò di Berenice, sorella del re Agrippa II, alleato di Roma. La principessa Berenice, donna colta, sensuale, ricca ed abile, di dieci anni più grande di Tito. “Né lei fu avara di lusinghe, di abbandoni, di seduzione, come di tutte quelle arti, tipicamente femminili e capacità di irretire un uomo. D’altronde Berenice, a giudizio unanime degli storici del tempo, possedeva l’avvenenza, il fascino, la malia di una donna orientale. Non la pensarono, né la videro diversamente i cives della capitale. Rinverdì loro l’immagine non mai dimenticata di Cleopatra, la “puttana d’Egitto”, da Orazio tradotta letteralmente in fatale monstrum o, peggio, dal timido Virgilio in nefas,coniux aegiptis ( l’orrore di una moglie egiziana): la Venere Esquilina era una copia della sua bellezza esotica che aveva intrigato il genio incomparabile di Cesare, e poi ingabbiata l’impetuosità virile di Marco Antonio” (F. Sampoli). Tito e Berenice ebbero un legame profondo ed impegnativo. Berenice si trasferì a Roma solo nel 75, ricevendovi grandi onori. I due convissero nello stesso palazzo, ma Berenice non si fece amare da Roma, la situazione fece colpo e provocò grandi critiche dei romani che cominciavano a paragonarla a Cleopatra. La situazione si fece insostenibile, e dopo qualche tempo Berenice fu indotta a lasciare Roma. Nel 79, Tito scoprì un complotto ai danni della vita di Vespasiano, ordito da Eprio Marcello e da Cecina, un ex generale di Vitellio. Tutti e due furono giustiziati. Dopo poco tempo morì Vespasiano. Quando Tito salì al trono, si portava dietro la sua attività di prefetto del pretorio, lasciando una più che spiacevole impressione. “Il punto è che, come prefetto del Pretorio, Tito non poteva non provvedere di necessità alla sua sicurezza e a un riordino severo dello Stato, compreso il rispetto delle istituzioni, specie in una società che della licenza dei costumi, dell’anarchia militare e politica, da più o meno dieci anni, ne aveva fatto regole di vita …. Svetonio e Dione Cassio non tralasciarono di sottolineare come Tito .…. fosse imperatore, protraendo fino a tarda notte le orge con quelli dei suoi familiari più scostumati e corrotti, e notoriamente libidinoso. L’età gliene dava pieno diritto. Nel campo femminile, per la depravazione dei costumi, aveva solo la difficoltà delle scelte e semmai il limite era quello imposto dalla natura alle sue ingordigie sessuali” (F. Sampoli). Tentò di presentarsi con una immagine nuova, più rassicurante e più liberale, pur mantenendo le rigide misure economiche introdotte dal padre. Il sistema di spionaggio a cui aveva fatto ampio ricorso, venne ridimensionato, e fu abolito il delitto di lesa maestà. Recuperando in pieno il suo carattere mite e la sua affidabilità, si guadagnò l’appellativo di “ delizia del genere umano”. “ davvero stravagante per un imperatore impegnato a sovrintendere le sorti di un impero di proporzioni vastissime” ( A. Frediani). Il regno di Tito visse di tre gravi calamità. Dopo un mese dall’ascesa al trono, l’eruzione del Vesuvio distrusse il golfo di Napoli, in particolare furono colpiti Pompei, Ercolano, Stabia. L’evento fu descritto da Plinio il Giovane, ospite dello zio Plinio il Vecchio, comandante della flotta di base nella vicina Miseno, che da naturalista era accorso presso Stabia all’atto dell’eruzione per poterla studiare da vicino, “ nella quale restò travolto e che aveva dedicato a Tito la Storia Naturale” (Passi – Todisco). Dopo la catastrofe, Tito si recò nella zona devastata, con grande tempestività, fornendo un grande aiuto alle popolazioni, e istituì una commissione di senatori per preparare i piani per la ricostruzione delle località distrutte. “Marziale lamentava di ritrovare nei luoghi dove la vite a la vita fiorivano rigogliose, soltanto un deserto di cenere desolante pesino per gli dei” ( A Spinosa). “Si pose infine un obbiettivo politico-religioso: quello di sfatare una mormorazione secondo la quale il seppellimento di Pompei dimostrava come il cristianesimo stesse prevalendo sulle divinità pagane” (A. Spinosa). Nel mentre si trovava ancora in Campania, a Roma scoppiò un grandissimo incendio che durò tre giorni e tre notti distruggendo un gran numero di importanti edifici pubblici, templi ed abitazioni private. L’incendio devastò il Tempio di Giove sul Campidoglio, il teatro di Pompeo, quello di Balbo, le terme di Agrippa, il Pantheon, le biblioteche di Augusto. Anche in questo caso Tito si dimostrò all’altezza della situazione, capace di organizzare gli aiuti alla popolazione e circoscrivere gli incendi. Però appena spento l’incendio di Roma, la città fu colpita da una delle più tragiche epidemie di peste che si ricordi, che Tito fronteggiò con pronte misure sanitarie. Altro grande avvenimento legato indissolubilmente al regno di Tito, fu il completamento e l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio. L’anfiteatro iniziato da Vespasiano era destinato ad ospitare i giochi dei gladiatori e gli spettacoli con le belve esotiche provenienti da tutti gli angoli dell’impero, le battaglie navali con relativo allagamento dell’arena. Il Colosseo, nome con il quale fu conosciuto in seguito, per la presenza nelle vicinanze di una statua colossale (colossus) di Nerone, fu il primo anfiteatro della città ad essere costruito interamente di pietra e divenne il più famoso di tutti gli edifici realizzato dalla dinastia Flavia, con enorme influenza sull’architettura dell’intera Europa. Il rivestimento in travertino dava ai quattro piani un tono impressionante di grandiosità e grazia. Il Colosseo poteva contenere 60.000 spettatori, i quali potevano essere protetti dalla calura mediante grandi teli sostenuti da pennoni che appositi marinai erigevano tutt’intorno alla circonferenza dell’arena. In contemporanea all’inaugurazione del Colosseo, Tito aprì le terme, come primo esempio di grandi impianti termali simmetricamente progettati con grandiosità imperiale. “ Tito ebbe nel comportamento tratti che lo assimilavano più a una tendenza divinizzante che a quella dell’imperatore frugale, al modello italico paterno”(G.Clemente). Lo storico Dione Cassio esprime un giudizio sul breve governo di Tito:”governò con moderazione e morì al culmine della gloria, mentre, se fosse vissuto più a lungo, si sarebbe potuto dimostrare che doveva la propria fama più alla fortuna che al merito”. “La brevità del regno rende difficile ogni valutazione, tuttavia il suo stile di governo sembra essersi differenziato da quello del padre: Tito fu più incline a svolgere una politica di apertura al mondo orientale, soprattutto sotto il profilo religioso (onorò divinità come Iside e Apis) e fu, a parte la catastrofe del 79, meno oculato e meno avaro, nella gestione delle risorse pubbliche”(G.A.Cecconi). Pare che nell’ultimo periodo della sua vita Tito sia stato molto depresso e abulico. Morì ad Aquae Cutiae a 42 anni, dove si era spento anche il padre Vespasiano, e le ultime sue parole furono:”Ho sbagliato una sola cosa”. Nessuno seppe mai a cosa si riferisse con precisione, alcune fantasticherie suppongono che forse provava rimorso per la relazione che aveva avuto con Domitia Longina moglie di suo fratello Domiziano. Dione Cassio fornisce un’altra versione; egli credeva che Tito si lacerasse l’anima per non esser riuscito ad evitare che Domiziano, suo fratello minore, gli fosse successore, avvenimento che egli riteneva sarebbe stata una catastrofe per l’impero. “In effetti, avrebbe lasciato di sé un pessimo ricordo, e anzi si disse che aveva causato la morte del fratello facendogli mangiare del pesce avvelenato. Ma si era ancora al tempo in cui le immense risorse dell’impero potevano permettergli di ammortizzare l’operato di un imperatore incapace, di riprendersi e produrne subito un’altro di ben altro spessore”(A.Frediani). “Il principio dinastico, temporaneamente compromesso da Nerone, tornava in tutta la sua pienezza,nonostante le modeste origini dei Flavi. La seconda dinastia imperiale, nonostante i meriti universalmente riconosciuti dei suoi rappresentanti, non ispirò la stessa lealtà della prima. Era invitabile che l’inaspettata ascesa di Vespasiano venisse interpretata come il risultato di un intervento divino, ma questo non conferì un mandato celeste né a lui, né tantomeno ai suoi figli. Tutti e tre dovettero continuamente dimostrare di essere degni del potere che era nelle loro mani. La cosa riuscì a Vespasiano e a Tito, ma non all’odiato Domiziano (A. Ziolkowski). Tito regnò due anni, due mesi e venti giorni. Stefano Vinti Condividi