Sulpicia, poetessa romana, e il suo piccolo canzoniere d’amore
In occasione dell’8 marzo, una giornata tradizionalmente dedicata alle donne, ci piace ricordare Sulpicia l’unica poetessa latina di cui ci sia rimasta una piccola parte della sua opera. Era figlia di Servio Sulpicio Rufo, nipote dell’omonimo amico di Cicerone, e di Valeria, sorella di Messalla. Appartenente a una famiglia di tradizione aristocratica, vissuta a Roma nell’età di Augusto, in un periodo di grande fermento letterario, in cui anche i mutamenti della condizione femminile avevano comportato una certa emancipazione delle donne, Sulpicia aveva avuto la possibilità di frequentare intellettuali e poeti che si raccoglievano intorno al circolo di suo zio Messalla, contrapposto a quello di Mecenate.
Il caso di Sulpicia è un’interessante testimonianza letteraria femminile della latinità, e il fatto che l’opera di una donna di Roma antica sia arrivata a noi solo nel corpus delle opere di un poeta, Tibullo, ci dice molto sui pregiudizi nei confronti della condizione del genere femminile nell’antichità. Le opere di Sulpicia furono attribuite a un uomo perché le donne non avevano canali per far conoscere e diffondere le loro opere, e forse il più delle volte non pensavano neanche di farlo. Inoltre neanche si prendeva in considerazione di tramandare ai posteri una produzione femminile. In un certo senso è stata una fortuna che le poesie di Sulpicia siano state attribuite a Tibullo, così si sono salvate.
Si tratta di sei brevi elegie, in tutto quaranta versi che sono appassionati messaggi d’amore scritti da Sulpicia, sulla cui reale esistenza un tempo si era dubitato e si era avanzata l’ipotesi che non fosse mai esistita e che i componimenti a lei attribuiti fossero esercitazioni letterarie, svolte da poeti del circolo di Messalla. Ma ora si è certi che questo piccolo gruppo di poesie d’amore indirizzate all’innamorato, Cerinto, fu composto proprio da Sulpicia.
Nella scarsità di voci femminili della letteratura latina colpisce la freschezza, l’espressione diretta dei sentimenti, la spontaneità dei versi di questa poetessa, grazie ai quali oggi è possibile conoscere come una donna romana vivesse le emozioni d’amore.
Rimasta orfana, la fanciulla crebbe nella casa di Messala che divenne suo tutore e la educò agli studi di eloquenza e di poesia. Conobbe i poeti che frequentavano il noto circolo letterario dello zio e compose anche lei versi di cui purtroppo abbiamo soltanto le sei brevi elegie, di cui si è detto, che ripercorrono la sua storia amorosa con il giovane Cerinto.
Esulta quando sente il suo amore realizzarsi e non vuole nasconderlo, intende rovesciare i canoni tradizionali della morale, non vuole atteggiare il viso per conservare una buona reputazione, ma sottolineare il legame di intensa reciprocità amorosa con l’amato:
“Infine è giunto l’amore, e sarebbe per me un’onta / maggiore celarlo che renderlo noto a qualcuno /…/ Non voglio affidare le mie parole a tavolette sigillate / affinché nessuno le conosca prima del mio amato. /…/ Il peccato mi è dolce e non voglio atteggiare il viso per sembrare virtuosa./ Si dirà che fui degna d’un uomo degno di me, io degna di lui.”
La ragazza non vuole stare lontana da lui e quando lo zio le propone di festeggiare il compleanno nella villa di campagna, si rifiuta, e controcorrente non elogia, come vuole il luogo comune, il piacere della campagna che lei invece vede come un luogo gelido. Se sarà costretta a una separazione il suo cuore rimarrà a Roma:
“Che cosa c’è più di più dolce della città? Piacciono forse a una fanciulla / un casolare e il gelido fiume che scorre nell’agro aretino?/ Fermati alfine, o Messalla, che troppo ti preoccupi di me;/ spesso, o mio congiunto, i viaggi non sono opportuni./ Se tu non permetti che agisca secondo la mia volontà / pur condotta via, qui lascio l’anima e i sensi”.
Quando non sarà più costretta ad allontanarsi dalla città lo comunica subito festosa a Cerinto: “Sai che il triste pensiero di quel viaggio è svanito dall’animo della tua fanciulla?/ Ora le è consentito di essere a Roma nel suo giorno natale./ Festeggiamolo insieme questo compleanno / che forse adesso ti giunge inaspettato”.
Sulpicia è gelosa al pensiero di un tradimento dell’amato, reso ancor più bruciante dal fatto che la rivale è una prostituta e lo rimprovera:
Ti permetti molte cose senza curarti di me /.../ hai a cuore una sgualdrina più che la tua Sulpicia.
Quando Sulpicia è malata, si tormenta al pensiero dell’indifferenza di Cerinto e si domanda angosciata se il suo amato stia pensando a lei:
“Non senti o Cerinto, un’affettuosa premura per la tua fanciulla/ ora che la febbre tormenta il mio corpo stremato?/ Ah, vorrei guarire dal mio triste male/ soltanto se fossi sicura che anche tu lo vuoi./ Che senso avrebbe superare la malattia / se tu con animo indifferente sopporti il mio dolore?”
Desiderando tenere celato a Cerinto la propria ardente passione, Sulpicia ha rinunciato a passare una notte con lui, ma poi si dichiara pentita:
“Se in tutta la mia giovinezza ho commesso, stolta, / qualcosa di cui io debba confessarmi maggiormente pentita, / è l’averti lasciato solo la scorsa notte / desiderando celarti tutto il mio ardente amore.”
Da questi piccoli stralci tratti dalle sue elegie possiamo affermare che Sulpicia è una poetessa di carattere, determinata ed emancipata, fuori dalle regole, che si ispira ai poeti neoteroi e, in particolare, alle poesie di Catullo, e considera insensato chi non si abbandoni senza riserve alla passione amorosa.
Se Sulpicia è la sola poetessa romana di cui ci è giunta la voce, credere, tuttavia, che sia stata l’unica donna del suo tempo a scrivere versi sarebbe un’affermazione semplicistica. La produzione femminile è stata sempre ignorata dai divulgatori, pregiudizialmente giudicata di qualità inferiore, e le poesie di Sulpicia si sono salvate e giunte fino a noi per una circostanza forse fortuita, perché ritenute di Tibullo nella cui raccolta confluirono. Ma Sulpicia, pur conosciuta nell’antichità e sebbene appartenesse a un circolo culturale molto importante, sarà purtroppo dimenticata per quell’errata idea, in voga soprattutto nel ‘400-500, secondo la quale a una donna non poteva essere concesso un posto di riguardo nella letteratura del mondo antico. L’idea che la letteratura, come lo scrivere, era cosa da uomini e che le donne non avessero la giusta predisposizione d’animo al mondo delle lettere era un pregiudizio rafforzato anche dal fatto che nel mondo antico alle donne non era concesso recitare a teatro e che le parti femminili nelle opere teatrali classiche erano rappresentate dagli uomini.
Caduto l’Impero romano Sulpicia fu dimenticata.
Le prime notizie sull’esistenza di Sulpicia e sulla sua riscoperta, si devono all’americana Carol Merriam, studiosa dell’elegia del tempo di Augusto, che nel 1991 pubblicò un articolo sulla poetessa.
Ci piace chiudere questo ricordo di Sulpicia considerando che la storia dell’umanità è piena di donne, e frusciante dei loro sussurri diventati con il tempo voci forti e determinate ad affermare i propri diritti.
Maria Pellegrini

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