D'accordo, il giornalismo è anche capacità di sintesi. Ma mi sembra che, travolto dalla tecnologia digitale (e dal suo uso non sempre illuminato), il giornalismo troppo spesso sia diventato ultrasintesi, sbriciolando oltre ogni limite concetti, sollecitando strumentalmente solo umori e non la parte raziocinante delle persone, fornendo solo emozioni senza lo scopo di aumentare la consapevolezza, la maturità delle persone e quindi provocando danni duraturi alla solidità e forza della democrazia. Il populismo, così come lo conosciamo nella sua declinazione pratica, è il distillato di questa crisi della democrazia e, anziché affrontare questa crisi con la cultura e l’educazione, molto spesso il giornalismo di oggi punta a lucrarci sopra ciò che è lucrabile al momento. Si risponde a chi, come me, obietta su questa deriva sempre più pronunciata che il pubblico oggi vuole emozioni e non ragionamenti, vuole chi rappresenta i suoi umori senza troppo pensare, vuole nemici contro cui sputare e non il dialogo, vuole essere confermato nei suoi giudizi e pregiudizi senza che siano infiltrati dubbi, senza stare troppo a pensarci su. Certamente per molte persone (ma non certo per una robusta minoranza che è e continuerà ad essere il ‘sale della terra’) ciò è effettivamente vero ed è lo specchio della crisi culturale, educativa, etica e morale della nostra civiltà, la cui crisi è diventata così manifesta che le culture autoritarie di ogni risma sono ormai convinte che siamo diventati aggredibili (culturalmente e non solo) perché corrosi al nostro interno, con le nostre fondamenta diventate fragili. Vedremo come andrà a finire. Ma mi viene in mente una bellissima battuta del comico irriverente Daniele Luttazzi, la cui satira aveva colto questa deriva trent’anni fa: “Avvertiamo i telespettatori che questo telegiornale andrà in onda in forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali”.

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