PERUGIA - "Baratteria (sorta di abuso di ufficio e sfruttamento ai propri fini e alla propria ricchezza della funzione pubblica esercitata), frode, falsità, dolo o malizia, inique estorsioni, proventi illeciti": sono queste le accuse che Dante Alighieri (1265-1321) si era attirato nello svolgere la carica di Priore di Firenze. In uno dei passi del “Libro del chiodo”, conservato all'archivio di Stato di Firenze, un passaggio della condanna in contumacia parla pure di "illecito stanziamento" di pubblico denaro da investire per azioni contro il sommo pontefice, Bonifacio VIII e Carlo di Valois e di aver brigato per cacciare i Neri da Pistoia. La condanna del 27 gennaio 1302 risultò durissima: 5000 fiorini d'oro piccoli (con confisca dei beni in mancanza del versamento imposto entro tre giorni), bando per due anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Ancora più tremenda quella del 10 marzosuccessivo: esilio perpetuo e rogo "così che muoia", qualora cada nelle mani del libero Comune (il poeta si era già allontanato da Firenze). Dante non conoscerà amnistie (pure pronunciate per altri fuoriusciti nel 1311 e nel 1315). Non solo: con un provvedimento del 15 ottobre 1315 la pena capitale, l'esilio e la confisca dei beni furono addirittura allargati anche ai figli del sommo poeta, Jacopo e Pietro.

Il giudice, o meglio uno dei giudici (anche se il più influente per il suo ruolo di podestà) fu un umbro: il nobile Cante de' Gabrielli di Gubbio (1260-1355), guelfo, più volte podestà di Firenze (1298, 1301, 1302, 1306), ma anche di Lucca (1312), di Perugia (1322), di Siena (1329), di Pistoia (1331), di Orvieto (1334).

Cante era un condottiero. La sua famiglia, guelfa, signoreggiava su Gubbio. Ma il 23 maggio 1300 la città venne assalita e conquistata dai ghibellini, al comando di Uguccione della Faggiola. Tra gli espulsi, pure Cante. I cacciati si recarono a Roma (correva l’anno del primo Giubileo) sollecitando l’intervento del Papa. Il 24 giugno, festa del patrono, gruppi di (falsi) pellegrini entrarono in città, con le armi sotto i vestiti e la riconquistarono, cogliendo di sorpresa i ghibellini. I vincitori di poche settimane prima (Uguccione, Federico I da Montefeltro, Uberto Malatesta) furono costretti ad umiliarsi in pubblico, ma furono lasciati andare. I ghibellini locali, invece, pagarono a caro prezzo, con esecuzioni sommarie, esilio, vessazioni la breve conquista del potere. Cante divenne, nei fatti, signore di Gubbio. E qualche mese più tardi, nel novembre, forse in virtù delle amicizie allacciate alla corte vaticana in primavera, venne chiamato dal Valois, inviato del Pontefice, a ricoprire la carica di podestà di Firenze. Formalmente il suo compito sarebbe stato quello di riportare la concordia tra le fazioni avverse: i Bianchi (capeggiati dai Cerchi, ricchi mercanti) ed i Neri (i cui leader erano i Donati, esponenti dell’aristocrazia). In realtà il podestà avrebbe colpito i primi e favorito i secondi. Firenze allora contava circa 50.000 abitanti. Arnolfo di Cambio aveva appena iniziato a costruire palazzo Vecchio (poi della Signoria) e monumento icona della città risultava essere il Battistero di San Giovanni.

Il 27 gennaio 1302 una delle sentenze emesse dal Gabrielli riguardò Dante Alighieri, che proprio in quei giorni si trovava a Roma quale ambasciatore e fu dunque pronunciata in contumacia, vere o confezionate ad arte, per liberarsi di un avversario, che fossero le accuse. La seconda, pubblicata il 10 marzo successivo, imputava a Dante - che si era guardato bene dal rientrare in Firenze - il fatto di non aver ottemperato al verdetto precedente e lo condannava al rogo (“igne comburatur sic quod moriatur”, si legge nel dispositivo), alla distruzione delle case di proprietà ed alla confisca dei beni (svaligiati, letteralmente, dai Neri). Tra gli altri condannati (14 in tutto) figuravano ser Petracco, padre di Francesco Petrarca, ed altri 12 esponenti di famiglie fiorentine tra i quali gli Altoviti, i Falconieri ed i Gherardini.

Il Gabrielli guidò anche le truppe dei Neri contro i Bianchi rivoltosi nel Pistoiese e nel Valdarno.

Al termine del suo mandato, il 30 giugno 1302, non solo tutti gli uffici governativi del Comune erano in mano ai Neri ed ai loro alleati, ma il podestà eugubino avrebbe emesso ben 170 condanne a morte e oltre 600 espulsioni di cittadini di parte Bianca. Comprensibile che questi ultimi, per rivalsa, avessero allacciato rapporti coi ghibellini di Scarpetta Ordelaffi da Forli (dal quale l’Alighieri era stato nominato segretario personale) per scatenare una guerra, vincere e rientrare a Firenze. I fuoriusciti mossero a battaglia, nel 1302, a Castel Puliciano, ma il successo arrise alle truppe guelfe del podestà Folcieri da Calvoli. Dante divenne, in via definitiva, dopo lo sfortunato scontro d’arme, il “ghibellin fuggiasco”. E si legò al dito il nome dei suoi “persecutori”: Cante de’ Gabrielli e Bonifacio VIII, in testa.

Mentre il poeta viveva, amaramente, in esilio, Cante cresceva in potenza ed in fama. Divenne uno degli uomini più influenti nella Corte Papale e fu più volte consigliere di Clemente V e diGiovanni XXII.

Quando nel 1317, Federico I da Montefeltro guidò la sollevazione ghibellina in Italia centrale, per strappare una serie di città al controllo della Chiesa e ingrandire il proprio staterello, Cante fu scelto da papa Giovanni XXII quale Capitano generale della Lega guelfa: comandante in capo, dunque. E dette prova di capacità. Costrinse Assisi alla resa, dopo un lungo assedio (1321), poi circondò Urbino dove Federico da Montefeltro si era arroccato. Presa la città, Federico venne trucidato dagli stessi urbinati. 

Nel frattempo, nel dicembre 1321, Dante moriva esule a Ravenna. Ma, sebbene gli fosse sopravvissuto, il Gabrielli andò incontro ad una fine da thriller. 

Siamo nel 1335.  Cante è ritornato in Gubbio dopo aver ricoperto la carica di podestà ad Orvieto. È famoso e rispettato. I suoi consanguinei dominano in città e lui si aspetta di vivere una serena vecchiaia. Ma i suoi concittadini di parte avversa non hanno dimenticato i torti subiti. A causare la sua morte, per avvelenamento, sarebbero stati i componenti della famiglia Raffaelli, di fazione ghibellina ed in feroce competizione coi Gabrielli per la supremazia cittadina. Un Bosone Raffaelli risulta essere stato letterato amico di Dante Alighieri (scrisse un commento alla Divina Commedia e un romanzo in volgare). Fosse lo stesso che avvelenò Dante (i nomi Bosone e Bosone Novello ricorrono spesso nel casato, per cui non c’è certezza nell’individuazione) la nemesi sarebbe completa. 

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