di Maria Pellegrini

Il termine “mimo” (in latino mimus), indica sia l’attore che il genere teatrale. In Grecia e poi nel mondo latino è una scenetta dialogata, tratta dalla vita quotidiana a differenza della pantomima, spettacolo in cui i ruoli e le azioni sono interpretati soltanto grazie alla mimica e con accompagnamento musicale da un pantomimo.

Nel III secolo il mimo giunge dalla Magna Grecia a Roma e trova in ambiente italico il suo naturale terreno di sviluppo. I mimi a Roma si rappresentavano di consuetudine nei ludi Florales, nel mese di Aprile, come intermezzo o alla fine di tragedie o commedie, anche a sipario chiuso e senza pretese artistiche, per intrattenere gli spettatori e suscitare il riso. I temi sono presi dalla vita quotidiana, con molte concessioni alla licenziosità e oscenità. I personaggi sono inizialmente gli stessi dell'atellana: la donna infedele, il marito tradito e beffeggiato, il giovane amante, l’ancella furba e ruffiana, ma a differenza delle atellane non portano la maschera, e indossano calzature piane. Una novità è la presenza sul palcoscenico delle attrici, le mimae, che appaiono sulla scena spesso in abiti succinti, e a richiesta del pubblico si spogliano suscitando da parte degli spettatori battute oscene.

Il pubblico che affolla i teatri è sempre più numeroso ed etereogeneo. I gusti cambiano. La gente non vuole pensare, ma divertirsi, ridere, assistere a rappresentazioni accessibili che contengano due motivi prediletti dalle masse: la trivialità e l’allusione politica; e così il mimo è sempre più apprezzato e richiesto. Diviene uno spettacolo a sè, sostituendo nel gusto degli spettatori l’atellana.

Anche le classi socialmente più elevate, nel tentativo di infondere nuova vitalità al teatro latino ormai in crisi, si mostrano più sensibili a quei temi di carattere popolare e accettano con favore nuove forme drammatiche che riproducano la realtà in tutti i suoi aspetti anche quello intimo e amoroso, con spirito buffonesco e scanzonato.

In tempi di travagliate contese civili, il mimo attira la simpatia e l'attenzione di uomini politici influenti quali Silla, Cicerone, Cesare, interessati forse a trarne vantaggio o a salvaguardarsi dalle maldicenze, dalle frecciate, dalle aggressive arguzie degli autori di mimi.

Ma non tutto nel mimo è scurrilità, spesso vi sono inserite delle sentenze o delle riflessioni che rispecchiano rettitudine, senso morale e sofferta umanità, come nelle opere di Decimo Laberio e Publilio Siro che nel I secolo a. C., nell'età di Cesare, portano il mimo a dignità letteraria.

DECIMO LABERIO

Laberio era un cavaliere romano, nato nel 106 e morto nel 43 a.C. contemporaneo dunque di Cesare e Cicerone. Dei suoi mimi abbiamo oltre quaranta titoli e brevi frammenti (in tutto centocinquanta versi). Molti titoli sono simili a quelli della commedia o a quelli del mimo greco e richiamano argomenti attinenti a festività, miti, tradizioni o mestieri.

Laberio è ricordato per la icastica descrizione di tipi e costumi e per aver saputo colpire personaggi noti dei suoi tempi. La sua satira politica non risparmia neppure Cesare che si vendica spingendolo a recitare i suoi mimi in una gara con Siro, più giovane di lui, e a subire l'umiliazione della sconfitta.

Nei versi che ci restano si nota una straordinaria efficacia nell'uso della lingua: Laberio ricorre a forme singolari, costrutti anomali, allitterazioni, assonanze; utilizza il patrimonio lingustico tradizionale dei suoi predecessori e nello stesso tempo crea voci nuove con una vivacità d’espressione davvero innovativa.

Durante i Ludi di Cesare del 46 a.C., il mimografo Publilio Siro che in quegli anni riportava straordinari successi in tutta Italia, osò sfidare in una pubblica gara tutti quelli che rappresentavano o scrivevano mimi. Laberio non era mai salito sul palcoscenico a recitare i suoi mimi, perché la cosa era ritenuta poco onorevole per la dignità di un cavaliere romano. Ma Cesare, che era stato spesso oggetto di sue argute frecciate, lo spinse a partecipare alla gara e a salire sul palcoscenico, non solo allettandolo con un ricco premio, ma anche perché “il potente non solo se invita, ma anche se prega, in realtà costringe”. (Macrobio, Saturnali). Macrobio ci ha tramandato tutta la vicenda: la sfida, la promessa di Cesare, l’amaro sfogo di Laberio che non risparmia amare considerazioni sul potere e pronuncia proprio da quel palcoscenico e alla presenza di Cesare, frasi audaci: “Ormai , o Quiriti, libertà perdiamo” e “Deve temere molti colui che molti temono”.

Sempre Macrobio riferisce che Cesare, dopo la gara consegnò il premio promesso e restituì la dignità di cavaliere a Laberio donandogli il simbolico anello d’oro e aggiungendo con una certa ipocrisia: “nonostante io parteggiassi per te, sei stato vinto da Siro”.

Dalla vicenda dunque, Laberio esce a testa alta. Nonostante i tempi difficili, sa levare la sua voce in nome della libertà e manifestare con sarcasmo la sua amarezza, proprio nel mimo recitato per la gara con Siro. Di esso è rimasto il prologo, prezioso documento che, oltre l'animosità della vicenda in se stessa, esprime sentimenti nobili ed elevati:

Lamento di un mimografo

“Chi potrebbe tollerare che io opponga un rifiuto a colui che neppure gli dei poterono mai negare qualcosa? A sessant'anni, vissuti senza macchia, io esco dalla mia casa cavaliere Romano e vi torno mimo. Davvero in questo giorno ho vissuto più di quanto dovevo vivere. O Fortuna, smodata e nel bene e nel male, se ti piaceva distruggere la mia fama quand'era al culmine delle lodi, perchè quando ero pieno di vigore nelle membra giovanili da poter soddisfare sia il popolo che un tale uomo, non mi piegasti per togliermela allora che ero flessibile? Adesso mi abbatti? e perché? Che porto sulla scena? Splendore di forma o bellezza del corpo, forza d'animo o il suono di una bella voce? Come l’edera serpeggiante soffoca le forze dell’albero, simile a sepolcro niente altro che il nome mi rimane”.

Labilità della fama

Ancora un’allusione all’episodio della gara con Siro. Amare considerazioni sulla fama che innalza gli uomini e poi li abbandona.

“Non tutti possono essere primi in ogni tempo. Quando raggiungerai il sommo grado della fama, ti ci fermerai a fatica, potresti cadere più velocemente  d'un battere di ciglia”.

Frammenti brevi

Non mancano mimi che prendono ispirazione da problemi filosofici e da argomenti di varia cultura trattati con spirito ridanciano o buffonesco. Parlando ad esempio della teoria della trasmigrazione delle anime :

“così l'uomo nasce da un mulo, la vipera da una donna”

o contro la teoria filosofica dei cinici. 

“seguimi in un cesso, per gustare qualcosa degli insegnamenti dei cinici”

e per finire un verso con delicati accenti di poesia:

“d’autunno quando il maestrale spande le foglie cadute dai pioppi”. 

PUBLILIO SIRO

Publilio Siro, schiavo proveniente da Antiochia, viene a Roma nell'anno 83 a. C. Dopo essere stato affrancato, forma una compagnia e gira con successo per tutta l’Italia facendo conoscere i suoi mimi. Grande successo ottiene a Roma per l’equilibrio del motivo comico e l’elemento didascalico costituito da molte riflessioni moraleggianti inserite nei suoi lavori teatrali.

Delle sue sentenze si compila presto una raccolta che nel corso degli anni diventa sempre più numerosa con l'aggiunta di molti versi non autentici. Alcune espressioni ricordano detti proverbiali o versi di autori greci, soprattutto Euripide e Menandro del quale si era pure fatta una raccolta di massime; altri sono dettati da quella saggezza popolare e buon senso che mirano alla ricerca della felicità con ricette semplici e alla portata di tutti.

Seneca il vecchio lo cita per i suoi detti moraleggianti e lo apprezza per la stringatezza con la quale riusciva ad esprimersi in modo più efficace “di qualsiasi comico o tragico, greco o romano”.

I suoi detti sono stati tramandati in molte raccolte. Per la loro concisione costituiscono un altro aspetto delle varie e originali forme espressive nelle quali si esprime il mimo.

dalle Sententiae

Publilio Siro porta  nel mimo un profondo senso di  umanità e di popolare saggezza espressa in un linguaggio decoroso e misurato in contrasto con la licenziosità tipica dei mimi (bisogna tener presente che Laberio e Publilio costituiscono una eccezione rispetto alla numerosa produzione di mimi in gran parte caratterizzata da trivialità e basso livello). Le sue sententiae furono ammirate in tutta l'antichità classica.

“L'amore, come la lacrima, nasce negli occhi, cade nel petto”..

“Il popolo ha potere là dove le leggi sono in vigore”..

“Vuoi avere un grande impero? Comanda su te stesso”.

“Verso nessuno l'avaro è buono, verso se stesso è pessimo”.

“Temi la vecchiaia: non viene mai sola”.

“Il danaro è come una serva, se sai usarlo, altrimenti è un padrone”.

“Il tempo è un consigliere utilissimo all’uomo”.

“Lunga è la vita per l'infelice, breve per chi è felice”.

“Nessun uomo onesto diventa ricco di colpo”.

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