La lunga estate dei festival è finita. Ci toccherà aspettare settembre per la Sagra musicale. Non per darci delle arie ma non si può non parlare con una qualche soddisfazione delle nostre eccellenze culturali. Certo, non sono cose nate ieri. Il festival di Spoleto ci ricorda, per chi c'era già, gli anni cinquanta, figuriamoci, la bell'epoca vissuta a bordo delle nostre prime utilitarie, Umbria Jazz gli anni settanta, la contestazione che si fa risentimento violento ma anche le grandi riforme sociali, il sogno italiano che non trova la nuova frontiera, il grande cambiamento.

Ora che non abbiamo più le illusioni di una volta continuiamo a custodire i nostri festival più belli e più importanti d'Europa come dei piccoli tesori nostri continuando a pensare che se sono nati proprio qui una ragione ci dev'essere. Il festival di Spoleto fu creato, letteralmente, da Giancarlo Menotti che cercava una città che gli piacesse e fosse lo specchio del suo sogno estetico. Spoleto, allora, era una delle tante città del silenzio della provincia italiana, ma aveva tutto ciò che serviva, il teatro romano per la danza, il teatro Nuovo per la lirica e la prosa, il Caio Melisso, una infinità di chiese e di chiostri e poi la strepitosa piazza del Duomo per il grande concerto all'aperto, all'ora del tramonto.

Spoleto somiglia a Salisburgo, la città di Mozart ma non ha nessun figlio da venerare. E' cresciuta coltivando la bellezza di tutte le arti, non negandosi il gusto di forti strappi innovativi. A Spoleto non c'è stata accademia, almeno non soltanto. C'è stata la Traviata di Visconti, insuperabile, ma anche " Bella Ciao" e poi le sculture dei più grandi artisti moderni fiorite nelle piazze della città, enormi e indecifrabili, il tentativo, sempre, di cercare qualcosa di nuovo. Peccato che la serata memorabile di "Bella ciao" non sia stata ricordata l'anno scorso, cinquant'anni dopo. Spoleto poteva diventare la capitale della canzone popolare italiana invece ha rimosso le mondine e la resistenza, il grido disperato di "Gorizia tu sia maledetta", la pietra dello scandalo di quella serata del giugno del 1964, gli inni degli anarchici. Forse non è più il tempo di queste cose, chissà. Senza Menotti il festival si è un po' allontanato, almeno guardando il cartellone, dal mondo nuovo, dall'America, e ha riscoperto la vecchia Europa. Così, almeno, pare, e forse era inevitabile.

Ai Due mondi continua a guardare Perugia con il suo festival del Jazz. Il jazz è nato lì, nel Mondo nuovo, e ha trovato in una città come Perugia una specie di nuova patria. Umbria Jazz non ha inventato il jazz, ovvio, ma ha inventato un nuovo modo di rappresentarlo, sin dall'inizio, pur con tutti i problemi e le polemiche che quelle prime edizioni suscitarono.

Il segreto di Perugia e di tante altre città della regione stava nella loro diversità rispetto alla patria del Jazz e alla sua leggenda. Tanto diversa che i concerti l'hanno attraversata tutta, da Piazza Grande al Frontone, dai giardinetti della Provincia a San Francesco al Prato, da Pian di Massiano, in un tendone da circo, persino, senza trovare mai le dimensioni ideali mentre la festa cresceva. Ora i luoghi sono quelli, al Santa Giuliana e al Morlacchi ma è tutta la città e le sue vie medievali a rappresentare lo scandalo di Umbria Jazz, la sua capacità di offrirsi come la platea naturale di questa musica senza forma e senza regole rappresentata nei manifesti di ogni edizione, come nei disegni di Burri quest'anno, nell'intreccio dei colori di Dorazio e nella capacità di scomporre il reale, nei pentagramma di Giuman che parlano con la forma delle loro stesse note, come tanti arabeschi. Umbria Jazz è, in ogni caso, la Fontana maggiore, le scalette del duomo, il lungo fiume di pietra di Corso Vannucci, il luogo dove è nata e dove, ostinatamente, continua a vivere.

Grazie a questo festival il Jazz non più la lingua sconosciuta nella patria del melodramma e gli artisti non sono soltanto quelli americani. Abbiamo imparato la musica nuova e poi questa musica l' abbiamo anche un po' reinventata promuovendo, un passo alla volta, gli stessi intrecci colorati di Piero Dorazio. Non solo il jazz degli americani ma musica contemporanea e suoni della modernità.

Nei giorni di Umbria jazz Perugia diventa la città ideale nella quale vorremmo vivere tutto l'anno. La musica c'entra sino a un certo punto. Sono le persone che arrivano, i giovani e le belle ragazze, le famiglie che si muovono da mezza Europa e poi i perugini che, finalmente, mettono la testa fuori dai loro vicoli silenziosi e che si guardano attorno rassicurati. Ci sono voluti degli anni perché questa fosse anche loro festa e non soltanto di quei matti di Renzo Arbore e Carlo Pagnotta. E poi ci sono gli artisti e l'hotel Brufani che diventa per dieci giorni la grande tenda degli americani. La Perugia cosmopolita. La Perugia dei due mondi. Senza offesa per Spoleto, si capisce.

Renzo Massarelli

renzo.massarelli@alice.it

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