Secondo la teoria tradizionale la deregolamentazione del mercato del lavoro e la flessibilità verso il basso dei salari farebbero aumentare l’occupazione. Si sostiene, cioè, che la domanda di lavoro è inversamente proporzionale al suo costo. Più alti sono i salari, minore è la domanda di lavoro, più cresce la disoccupazione. Questa idea nel corso del ’900 è stata messa in discussione de Keynes e Sraffa e sul piano empirico non ha riscontri. Persino un’istituzione internazionale favorevole alla liberalizzazione del mercato del lavoro come l’Ocse nei suoi studi non ha trovato relazioni tra gli indici di protezione dell’impiego e i tassi di disoccupazione. Altri studi dimostrano al contrario che la disoccupazione è in relazione con l’andamento della domanda aggregata. E che esiste una relazione positiva tra alti salari, crescita dei consumi, crescita del Pil e alta occupazione. La deregolamentazione del mercato del lavoro e la spinta in basso dei salari possono determinare anche la riduzione della produttività: le imprese, potendo comprimere il costo del lavoro, sono meno incentivate a introdurre innovazioni tecnologiche. In un mercato aperto, una riduzione dei costi e dei salari può effettivamente consentire una crescita delle esportazioni.

Ciò è recentemente avvenuto, ad esempio, in Irlanda e in Germania. La prima ha attratto investimenti offrendo alle imprese vantaggi fiscali. La Germania è invece riuscita a far crescere la produttività, senza far crescere i salari. Ma la competitività è sempre relativa. Se tutti i competitori abbassano i salari, non vince nessuno. L’unico risultato è una riduzione della domanda e della crescita. Per recuperare il differenziale di competitività con la Germania i Paesi della sponda Sud dovrebbero ridurre i salari e i prezzi dei beni esportati di qualcosa come il 30 per cento. Se accadesse (come è probabile) che la riduzione dei salari non producesse un’eguale discesa dei prezzi, il potere d’aquisto delle retribuzioni si ridurebbe, creando contraddizioni sociali insostenibili. D’altra parte se anche i prezzi scendessero, questo renderebbe comunque il debito contratto, sia pubblico che privato, più oneroso, con conseguenze gravissime. Se il problema è di riallineare la competitività di Berlino con quella dei Paesi della sponda Sud, ciò si può fare anche facendo crescere sia i salari reali (in modo da recuperare il terreno perduto rispetto alla produttività) che i prezzi in Germania. L’inflazione ha conseguenze meno negative della deflazione. E ciò potrebbe trovare consensi anche tra i lavoratori tedeschi.

di Antonella Stirati, docente alla facoltà di Economia Federico Caffè dell’università Roma tre. Scrive sul sito economiaepolitica.it

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