Il 9 dicembre alle ore 16, nella sala Sant’Antonio a Torgiano, nell’ambito della manifestazione “Botteghe in luce” (curata dall’associazione commercianti ‘Vivi Torgiano’) che sarà aperta giovedì 7 dicembre per concludersi il 6 gennaio, avrà luogo un evento di grande suggestione come la riproduzione con soldatini di piombo della battaglia del Trasimeno, che sarà messa in scena dall’attuale campione italiano – già campione europeo e campione mondiale – della specialità, Massimiliano Martellacci. Un evento di grande interesse a cui davvero non mancare, per capire le mosse con cui Annibale assestò una tremenda sconfitta all’esercito romano, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza della Città eterna. Il tutto con soldatini di piombo che mostrano le esatte sembianze dei legionari. In attesa dell’evento, per avere un quadro storico di riferimento di quella famosa battaglia, ecco un intervento della storica Maria Pellegrini, che fa seguito a quello di Stefano Vinti, appassionato di storia romana e che da anni studia le fonti sulla battaglia del Trasimeno.

La strategia di Annibale nella battaglia presso il Trasimeno

 

di Maria Pellegrini*

Una delle più drammatiche pagine dell’opera di Tito Livio Ab urbe condita è il racconto della disperazione del popolo romano alla notizia della sconfitta del Trasimeno avvenuta nel 217 a. C. durante la seconda guerra punica, scatenata in seguito alla decisione di Annibale di abbattere la potenza di Roma, vincitrice nel primo conflitto con Cartagine (264-241 a. C.).

«A Roma, all’annunzio della disfatta del Trasimeno, con pauroso tumulto è tutto un accorrere di popolo nel Foro. Le matrone, errabonde per le vie, chiedono notizie a quanti si fanno loro incontro, ansiose di sapere quale improvvisa disfatta fosse annunziata e quale fosse la sorte dell’esercito. E poiché la turba rivolta verso il Comizio e la Curia chiamava fuori i magistrati, finalmente, non molto prima del tramonto del sole, comparve il pretore M. Pomponio che disse: “Siamo stati sconfitti in una grande battaglia”. […] L’indomani e per alcuni giorni successivi, una moltitudine forse più di donne che di uomini stette alle porte aspettando qualcuno dei propri congiunti o altri che ne portassero notizie e si accalcavano intorno alle persone che incontravano facendo insistenti domande. […] Specialmente nelle donne notevoli erano le manifestazioni di gioia o di dolore secondo che venissero riferite notizie liete o tristi».

 

Le vittorie di Annibale prima della battaglia del Trasimeno. La sua strategia molto ‘romana’ del ‘divide et impera’

Facciamo un passo indietro. Annibale nell’estate del 218 a. C., lasciato il comando della guerra in Spagna al cognato Asdrubale, arrivò ai confini d’Italia, varcò con i suoi soldati, cavalieri ed elefanti le Alpi, e affrontò l’esercito romano prima sulla riva del Ticino e poi alla Trebbia. Si trattò di due battaglie disastrose che costituirono una sconfitta anche politica perché i Galli defezionarono e passarono quasi tutti al cartaginese (la Gallia Cisalpina era divenuta provincia romana nel 222 a.C.). Annibale scorrazzava da padrone per la pianura padana con il favore e l’appoggio delle popolazioni galliche. Il progetto di Annibale prevedeva una raffinata strategia politica: in primo luogo, sfruttare le divisioni fra i popoli italici soggiogati dai Romani allo scopo di spingerli alla ribellione. Niente di più romano in questa strategia del cartaginese Annibale. Una vera e propria messa in pratica del famoso motto divide et impera secondo cui il migliore espediente per controllare e governare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

A Roma il malcontento popolare per le sconfitte si espresse nel 217 con l’elezione a console di Caio Flaminio, un uomo malvisto dal Senato per la politica popolare attuata quando era tribuno della plebe. Superando l’opposizione della classe senatoriale e dei ceti conservatori egli era stato eletto insieme a Gneo Servilio Gèmino.

I due consoli avrebbero dovuto sbarrare il passo ad Annibale che si avvicinava all’Italia centrale, ma ignoravano quale valico dell’Appennino avrebbe scelto per transitare con il suo esercito. Annibale non era che un generale di trent’anni, ma impersonava la volontà imperialista della grande repubblica di Cartagine e il suo odio contro il primato civile di Roma che egli aveva giurato al padre Amilcare Barca sarebbe stato eterno.

Flaminio, il più autorevole dei due consoli per i suoi precedenti militari, decise che l’esercito guidato da Servilio prendesse posizione a Rimini, e l’esercito guidato da lui stesso ponesse il campo nell’Etruria centrale per chiudere il passo al Cartaginese da qualsiasi valico si avvicinasse. Rimaneva però lo svantaggio di due eserciti lontani l’uno dall’altro.

Come maturò la disfatta romana al Trasimeno

Livio così racconta: «I Cartaginesi erano ormai giunti in un luogo fatto apposta per le imboscate, proprio dove le alture di Cortona digradano verso il Trasimeno. In mezzo c'è solo una strada strettissima, come se fosse stato lasciato di proposito uno spazio proprio per questo scopo; poi la pianura si estende un po’ più ampia, da lì si levano dei colli. Annibale pone l’accampamento in campo aperto, per risiedervi egli stesso soltanto con gli Africani e gli Spagnoli; i Baleari e il resto dei soldati armati alla leggera li manda dietro i monti; i cavalieri li dispone proprio all’imbocco della gola, opportunamente nascosti dalle alture, affinché, una volta che i Romani vi fossero entrati, sbarrato il passo dalla cavalleria, tutti i passaggi fossero chiusi dal lago e dai monti».

Flaminio, dopo essere giunto al lago avvistò soltanto quella parte dei nemici che era di fronte a lui, non si accorse del pericolo che aveva alle spalle e sopra la testa. Il Cartaginese, quando vide il nemico chiuso dal lago e dalle colline e accerchiato dalle sue truppe, diede a tutti il segnale di attaccare contemporaneamente. Dal clamore levatosi da ogni parte i Romani si accorsero di essere circondati prima ancora di vedere con chiarezza a causa della nebbia. Non ebbero il tempo di disporsi nel loro abituale assetto di battaglia e furono costretti a combattere in ordine sparso senza alcuna possibilità di scampo. Fu un massacro in cui persero la vita 15.000 romani, uccisi sul campo. Fuggendo sparsi per tutta l’Etruria, 10.000 giunsero a Roma per diverse vie. A questi si aggiunsero i prigionieri che Polibio stima in numero di più di 15.000. Lo stesso console Flaminio fu ucciso da un cavaliere insubre di nome Ducarione.

Quest’ultimo, racconta Tito Livio, «cacciati gli sproni nel ventre del , si gettò impetuosamente in mezzo alla foltissima schiera dei nemici e, abbattuto prima lo scudiero lanciato contro di lui che avanzava minaccioso, trafisse il console con la lancia». Il corpo di Flaminio non fu ritrovato, perché decapitato e spogliato della sua ricca armatura, impedendo ad Annibale di rendergli onore con una sepoltura degna di un valoroso nemico e di un console romano. I corpi dei caduti furono cremati negli ustrina di cui la zona di Tuoro è, a tutt’oggi, disseminata.

Il giorno dopo vennero sconfitti anche alcuni reparti di cavalleria di Servilio appena arrivati, che si scontrarono con la cavalleria numida di Maarbale. Qualche migliaio di superstiti delle legioni si disperse in Etruria.

Annibale fu dissuaso dal proseguire per Roma perché, passando per l’Umbria, aveva trovato tutte le città ostili. Resistette pure Spoleto, che respinse gli assalitori. Carducci, nella poesia Alle Fonti del Clitunno, scrive con orgoglio: «Deh, come rise d’alma luce, il sole in questa chiostra di bei monti, quando urlanti vide e ruinanti in fuga l’Alta Spoleto, i Mauri immani e i numidi cavalli, con mischia oscena, e sovra loro nembi di ferro, flutti d’olio ardente e i canti de la vittoria».

La battaglia del Trasimeno è oggetto di più di 150 anni di studi approfonditi, di analisi delle fonti, di comparazione del livello del lago, di ricerche archeologiche. Le tesi avanzate da Giovanni Brizzi dell’università di Bologna, uno dei più prestigiosi studiosi delle vicende annibaliche, appaiono quelle che ormai riscuotono un generale consenso.

Non vorremmo però in questa sede soffermarci sullo svolgimento della battaglia, argomento più adatto a studiosi dell’arte della guerra, delle tattiche, degli schieramenti, degli agguati, delle strategie. In rete si possono trovare tutte le informazioni sui piani dell’una e dell’altra parte in conflitto con particolari molto precisi, accompagnati da cartine, riproduzioni e descrizioni dei luoghi dove si erano accampati gli eserciti. Ciò che riteniamo doveroso ricordare è la gravità della sconfitta, una delle più dolorose subite da Roma tanto che Annibale, osannato per il suo eroismo sul campo di battaglia e per la sua intelligente strategia, divenne oggetto di timore reverenziale.

Formazione e personalità di Annibale. Il metus Gallicus e metus Punicus

Silio Italico (26-101 d. C.), autore di un poema epico intitolato Punica che narra le vicende della seconda guerra contro Cartagine dalla presa di Sagunto alla battaglia di Zama (219-202 a.C.), come già Polibio e Livio prima di lui, consideravano che la potenza di Roma fu messa a rischio solo due volte: durante l’assedio dei Galli nel 390 a.C.; e - anche se brevemente - da Annibale all’inizio della seconda guerra punica. Da allora si parlò dei due metus (terrore) nella psicologia romana: metus Gallicus e metus Punicus. Tuttavia neanche con la sconfitta di Canne del 216, gli servì per raggiungere il suo vero scopo: l’annientamento del nemico. Le sue virtù tattiche si scontrarono con una resistenza ancora più forte, quella del regime politico romano.

La seconda guerra punica ruota tutta intorno ad Annibale, nato nel 247 a. C. In gioventù fu educato da Sosilo, un precettore spartano che lo introdusse allo studio della storia e della cultura greca, lo seguì in Italia e ne raccontò le imprese in un’opera storica che purtroppo è andata perduta. Annibale studiò a fondo i trattati militari e analizzò nei minimi particolari le campagne di Alessandro Magno, che diventò il suo modello. Fu degno erede di suo padre, Amilcare Barca, comandante nella prima guerra di Cartagine contro Roma. Benché spesso gli storici romani ne abbiano messo in luce la crudeltà e la spietatezza, non hanno potuto negare con quale abilità Annibale comandasse l’esercito anche nelle situazioni più drammatiche. Polibio scrive infatti che nonostante la durata degli scontri (sedici anni) avvenuti in Italia tra le due forze nemiche «Annibale col suo ascendente sulle truppe seppe tenere unito il suo esercito composto di uomini diversi per stirpe, leggi, costumi». Molti erano mercenari di varie etnie. Ciascuna aveva le sue peculiarità in fatto di combattimento: c’erano i fanti spagnoli muniti di una pericolosa spada ricurva, i frombolieri delle Baleari con le loro micidiali fionde, la veloce cavalleria numidica dotata di cavalli di piccola taglia e di giavellotti che scagliavano in corsa contro i nemici.

Un esercito tanto composito e di mercenari, abituati pertanto a combattere non per la fedeltà a un’idea o a una città ma per denaro, non poteva che essere tenuto insieme da un uomo dotato di grande prestigio e forza morale. Annibale era da tutti considerato un genio della tattica di guerra che sapeva stare con i suoi uomini mettendosi allo stesso livello: viveva con loro, dormiva sulla nuda terra esattamente come loro, mangiava il loro stesso cibo. E non chiedeva mai più di quello che lui stesso fosse disposto a dare. Presso i soldati, il fascino della sua personalità era enorme: il loro attaccamento al generale sconfinava in una sorta di cieca devozione.

È molto difficile ricostruirne la personalità di Annibale, nota soprattutto per i ritratti tendenziosi e ostili tramandati dagli storici di parte romana che lo raccontarono come un avversario acerrimo e accanito, allevato fin dall’infanzia in un assurdo odio per i Romani. Secondo un celebre aneddoto, riferito da Polibio, Cornelio Nepote, Livio e Silio Italico, il padre Amilcare Barca avrebbe fatto giurare al figlioletto di nove anni, davanti a un altare, odio eterno per la città nemica. Silio Italico si distacca dagli altri autori, ricreando per il giuramento di Annibale, un’atmosfera del tutto diversa, quella di un luogo orrido in cui volteggiano gli spiriti dei trapassati; Annibale giura odio eterno contro Roma non solo davanti agli altari presso i quali è stato condotto per ordine del padre, ma anche di fronte a tutti i dignitari. È strano che nelle raffigurazioni pittoriche e negli affreschi del Seicento e del Settecento è proprio la narrazione del poeta Silio Italico, autore di un poema epico, che viene ripresa e non quella degli storici.

Numerosissime le testimonianze antiche riguardanti questo grande condottiero, sulla sua impressionante genialità militare e soprattutto riguardo la campagna militare condotta nella penisola italica. Fu però Cornelio Nepote l’unico a scrivere una biografia completa di questo uomo nella sua opera De viris illustribus.

Il testo di Nepote, nel primo capitolo, ha la capacità di riassumere in pochissime righe le qualità del condottiero e i motivi per cui si ebbe la sua definitiva caduta: «Annibale, figlio di Amilcare, era cartaginese. Se è vero, cosa di cui nessuno dubita, che il popolo romano superò in valore tutti i popoli, è innegabile che Annibale di tanto superò in accortezza gli altri comandanti, di quanto il popolo romano supera in forza tutte le altre genti».

Nepote sostiene addirittura che Annibale avrebbe certamente sconfitto Roma se fosse stato adeguatamente sostenuto in patria e forse aveva ragione nel credere che un motivo importante del fallimento di Annibale fu il mancato sostegno dei suoi concittadini. Annibale, per altro, era certamente consapevole di avere molti nemici nell’oligarchia cartaginese: egli era tuttavia convinto di poter condurre in Italia una guerra-lampo e di limitare quindi al minimo i danni di quel mancato appoggio.

A tinte fosche è il ritratto lasciato Livio: «Aveva il massimo dell’audacia nel cercare i pericoli, e il massimo della prudenza nell’affrontarli; nessuna fatica poteva fiaccare il suo corpo o sopraffare il suo animo; sopportava ugualmente bene il caldo e il freddo; la misura del cibo era determinata dal bisogno naturale e non dall'ingordigia; i periodi di veglia e di sonno erano distinti non dal succedersi del giorno e della notte ma dalla semplice disponibilità di tempo, era concesso al sonno il tempo che avanzava dall’azione; esso non veniva cercato su di un morbido letto né nel silenzio, coperto da un mantello militare giacente per terra in mezzo alle sentinelle e ai corpi di guardia. Il suo modo di vestire non si distingueva fra quello dei suoi pari mentre si facevano notare le sue armi e i suoi cavalli. Era di gran lunga il più grande dei cavalieri e dei fanti; per primo entrava in battaglia, per ultimo si ritirava. Enormi difetti pareggiavano queste eccezionali virtù. Una feroce crudeltà, una malafede più che cartaginese, una continua menzogna, nessun rispetto per la religione, nessun timore degli dèi, lo spregio del giuramento, la mancanza di ogni scrupolo. Con questo insieme di virtù e di vizi per tre anni prestò servizio sotto il comando di Asdrubale, non avendo trascurato cosa alcuna che dovesse compiere o conoscere un uomo che era destinato a divenire un grande capitano».

Silio Italico invece lo descrive così: «Era per natura bramoso di azione e alieno dalla lealtà, / ricchissimo di astuzia, ma privo di ogni giustizia. / In armi, non ha alcun rispetto dei numi; valoroso oltre misura, / disprezza la gloria della pace, e nel profondo delle viscere / gli arde la sete di sangue umano».

La lotta per l’egemonia del Mediterraneo

Abbiamo in questo breve spazio descritto un episodio del lungo conflitto fra Roma e Cartagine. Le tre guerre con le alterne vicende altro non era che la lotta per l’egemonia su tutto il Mediterraneo e i territori intorno ad esso disposti: a nord, Spagna, Illiria, Grecia; a sud, le coste africane. Da una parte, Cartagine, ricca città di agricoltori, mercanti e navigatori gelosi della loro supremazia sul mare, ma anche dei loro stanziamenti in Spagna e dell’influenza esercitata sulle città della Magna Grecia; dall’altra, Roma, animata da una continua e aggressiva volontà di espansione economica, fiduciosa nel valore delle sue legioni di rudi e spietati combattenti agli ordini di condottieri abili e sperimentati in una serie di guerre offensive nella penisola a imposizione o difesa del proprio primato e dei propri interessi.

* Storica

 

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