Ad iniziare dal Comune di Perugia, passando per la Regione dell’Umbria, ultimamente c’è un gran movimento attorno ad un nome dalle caratteristiche accattivanti, che fa tanto “fico”: il Social Housing. Ma cos’è in realtà il Social Housing?

Presso la Cassa depositi e prestiti con la partecipazione di Abi e Acri (banche e casse di risparmio), si è costituito un maxi-fondo di 2,6 miliardi di euro per il social housing.

Attraverso una società di gestione risparmio (Sgr), questo fondo dovrebbe intervenire per finanziare progetti di edilizia sociale, decisi a livello locale con la partecipazione di fondazioni bancarie, imprese cooperative, enti locali e regionali previa costituzione di appositi fondi immobiliari.

Si tratta dunque di un sistema di fondi immobiliari a livello regionale e locale e di un fondo nazionale, il cosiddetto Fia (Fondo investimenti per l’abitare). Parliamo di circa 10 miliardi di euro destinati a una prima casa che, secondo la legge 133/2008 del Governo Berlusconi, avrebbero dovuto soddisfare le fasce più deboli: inquilini a basso reddito, giovani coppie, anziani, disabili e sfrattati”.

“In realtà gli impegni di spesa sono assai modesti e non superano il miliardo di euro. Per loro natura i fondi d’investimento non solo hanno la necessità di rientrare nel breve periodo, ma anche di massimizzare i capitali investiti.

In Umbria, ad esempio, gli investimenti che riguardano la costruzione di alloggi da affittare a canone sociale, cioè a 75 euro mensili, non attirano nessun interesse dato il basso tasso di guadagno.

I ‘costruttori’, dove sono partiti i primi ‘programmi integrati di edilizia sociale’, hanno subito trovato il modo per costruire nuove abitazioni da vendere a prezzi di mercato, senza rinunciare alle risorse della Cassa depositi e prestiti e all’uso gratuito delle aree messe a disposizione degli enti locali.

Programmi che, inoltre, godono di una corsia preferenziale per derogare le norme urbanistiche e di immancabili e notevoli agevolazioni fiscali. I costruttori hanno trovato, insomma, una sorta di grimaldello per aggirare gli impegni verso l’abitare sociale”.

Il grimaldello sta in un ‘anche’ contenuto nella legge 133/08, laddove al comma 3 dell’articolo 1 si parla di realizzare ‘programmi integrati di programmazione di edilizia residenziale anche sociale’.

La Corte costituzionale con sentenza numero 121 del 26 marzo 2010 ha accolto in parte i rilievi di costituzionalità sollevati: tra quelli accolti c’è la richiesta di cancellare la parola ‘anche’, perché i programmi edilizi della legge 133/08 devono essere finalizzati ‘esclusivamente’, dice la Corte, per l’edilizia sociale, ossia per le fasce deboli della popolazione.

In Italia sono in attesa di un alloggio a canone sociale, presso i Comuni, circa 700mila famiglie, di cui 5mila in Umbria. Nonostante questa importante sentenza i programmi predisposti fingono di ignorarla.

La sentenza non va lasciata cadere. Le forze progressiste, le organizzazioni confederali e i sindacati degli inquilini dovrebbero farla rispettare nelle sedi negoziali e in quelle legali, se necessario.

È da ritenere giusto che le imprese che si candidano a costruire alloggi sociali si avvalgano di vantaggi fiscali, finanziari, urbanistici, amministrativi, ma l’offerta abitativa deve essere coerente e non contraddittoria rispetto ai bisogni dei giovani, degli anziani, delle fasce deboli che vivono il disagio abitativo, ormai strutturale”.

In particolare l’offerta deve essere rivolta all’affitto sociale e non residenziale e lo deve fare ancorandosi alla sentenza della Corte costituzionale per dimostrare la diversità tra destra e sinistra e per rispondere al populismo del ‘prima gli italiani’.

L’offerta in affitto continuerà a essere inaccessibile a coloro che vivono una situazione di disagio abitativo. Ancora una volta, i veri beneficiari del social housing sono i privati, la sostanza è business allo stato puro.

 

Stefano Vinti

 

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