di Roberto Ciccarelli - Il Manifesto

Poveri assoluti. Da questo sistema ingiusto restano esclusi milioni di lavoratori precari, i “poveri assoluti” italiani saranno sussunti da un governo della povertà, mentre gli stranieri residenti poveri saranno colpiti da un nuovo stigma.

Rispetto al progetto di legge depositato nel 2014, i Cinque Stelle hanno ridimensionato la platea dei possibili percettori del sedicente “reddito di cittadinanza” dal totale dei “poveri assoluti” e “relativi”, circa 14 milioni di persone, a circa 3 milioni e 400 mila poveri “assoluti” italiani, escludendo almeno 1,6 milioni di stranieri residenti che sono stati classificati in questa categoria. Il vicepremier ministro del lavoro e sviluppo Luigi Di Maio ha ipotizzato l’inclusione solo degli stranieri che risiedono e lavorano in Italia da 10 anni. Vedremo. Dopo a questa cifra potrebbero essere aggiunti almeno 1,68 milioni di pensionati che percepiscono un assegno sotto i 500 euro al mese. A loro dovrebbe andare la “pensione di cittadinanza”, pari alla differenza (all’incirca 300 euro mensili) tra l’importo dell’assegno e la soglia di 780 euro ricavata sul reddito mediano pro-capite, la stessa sulla quale è determinato il sussidio per i poveri in età di lavoro.

Il totale è oltre 6 milioni di persone che percepiranno il “reddito-pensione di cittadinanza”, la cifra di cui si è parlato nelle ore successive all’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def).

Se confermata, questa platea composita sarebbe il risultato della segmentazione di categorie diverse di poveri creata usando il criterio dell’appartenenza nazionale ed etnica (gli italiani prima degli stranieri comunitari e extra-comunitari) e il criterio meramente patrimoniale e reddituale che somma soggetti a cui saranno chiesti comportamenti diversi. La “pensione di cittadinanza” si configura come un bonus. Il “reddito di cittadinanza” non è un’erogazione universale, incondizionata e diretta, ma una forma di workfare determinato in base alla composizione del nucleo familiare e a un reddito Isee che potrebbe oscillare tra i 7 e gli 8 mila euro, più alto dell’attuale “reddito di inclusione” (ReI).

Per avere il sussidio i “poveri” dovranno lavorare otto ore a settimana gratis “per lo Stato” e accettare una proposta di lavoro su tre, forse in tre anni (e non più 18 o 24 mesi come si è pensato in precedenza), pena l’espulsione dal sistema.
L’importo del “reddito di cittadinanza” sarà determinato sulla base della differenza tra il patrimonio e altre entrate e la soglia massima di 780 euro. Significa che non a tutti i “poveri” andranno 780 euro ma ciò che manca per arrivare a una simile cifra, in media all’incirca 480 euro. Chi pensa a un’erogazione della cifra totale ignora le tecniche del means testing, la prova dei mezzi, attraverso la quale il governo neoliberale della povertà eroga le risorse pubbliche, oltre alla scarsa efficacia di un approccio individualizzante, punitivo e prestazionale di queste politiche.

Si spiega così anche la riduzione dell’importo totale della misura. Sulla base di un’elaborazione dell’Istat fatta nel 2016 il “reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle doveva costare 17 miliardi, comprensivi di 2 miliardi per “rifare” i centri dell’impiego, necessari per fare partire un reddito minimo condizionato al reinserimento lavorativo e alla riqualificazione professionale. Ora si parla di una cifra inferiore: 10 miliardi che dovrebbero comprendere i 2,5 miliardi per il “ReI”, i fondi per Naspi e Dis-Coll (che vanno ai lavoratori che hanno perso il lavoro, non ai poveri assoluti), più le risorse fresche finanziate in deficit per i prossimi 3 anni. Nuovi fondi per i centri per l’impiego potrebbero arrivare da quelli europei per la formazione professionale.

Nel caso in cui il lavoro “stabile” non arrivi dopo tre anni, sembra prefigurarsi la possibilità che il soggetto continui a percepire l’assegno di povertà. Se così fosse si passerebbe dalle illusioni del workfare per i poveri alla creazione di una categoria di esclusi sistemici formalmente riconosciuti. In cambio di un sussidio, il soggetto deve attivarsi in un tempo determinato e accettare un lavoro teoricamente congruente con le sue “competenze”, mentre è materialmente obbligato ad accettare qualsiasi offerta. Nel caso di disoccupazione di lunga durata si creerebbe una categoria di prigionieri del workfare, non diversamente da quanto già accade in Germania, uno dei paesi considerati modello da questo governo.

Numerose sono le incognite in questo vasto programma. I 2 miliardi dovrebbero servire anche ad assumere una quantità non ancora precisata di personale nei centri per l’impiego (10 mila persone? Oltre gli 8 mila esistenti), mentre non si hanno notizie sulle 1600 assunzioni annunciate. Va ricordato lo stato dei centri per l’impiego: oggi solo il 4% trova lavoro. C’è la confusione amministrativa generata dal conflitto delle competenze tra Stato e regione non risolta dal Jobs Act. Infine la situazione paradossale dell’agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal) che dovrebbe coordinare l’attività pubblico-privata della formazione e del collocamento.

La maggior parte dei dipendenti dell’Anpal è precaria ed è mobilitata per la stabilizzazione. Ci sarà uno speaker’s corner il 4 ottobre a Roma.
Condizioni che rendono scarsamente credibile l’impegno di avviare il “reddito di cittadinanza” tra “gennaio” e “marzo” 2019, in vista delle elezioni europee. Al di là dell’operazione politico-mediatica, oggi sulle spalle di poveri, precari e disoccupati si sta giocando un’importante partita: il governo della loro vita finalizzato all’occultamento statistico della povertà. Questo significa l’“abolizione della povertà” di cui parla Di Maio. Da questo sistema ingiusto restano esclusi milioni di lavoratori precari, i “poveri assoluti” italiani saranno sussunti da un governo della povertà, mentre gli stranieri residenti poveri saranno colpiti da un nuovo stigma.

Saranno sottoposti alla cura Daniel Blake, come nel film di Ken Loach.

 

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