da Invictus

Roma, via Frangipane. Al numero civico 39, si trova la Palestra “Audace”. È una storica palestra capitolina, “covo” di pugili professionisti e non. Durante la ristrutturazione, in un vecchio magazzino, viene ritrovata una valigia. È polverosa, sgualcita. Al suo interno contiene: un paio di guantoni da boxe, degli scarpini e un casco protettivo. Quella valigia si trovava in quel vecchio magazzino da quasi ottant’anni. Quella valigia racconta una storia, la storia di un uomo...
Leone Efrati nasce a Roma il 16 Maggio del 1916. È un ragazzo semplice, generoso. Tutti lo chiamano “Lelletto”. “Lelletto” è ebreo. A 17 anni entra a far parte della palestra “Audace”. Si allena per diventare un pugile professionista. Nel 1935, inizia la sua carriera. È un peso piuma agile, scattante e forte. Combatte con i più grandi campioni italiani dell’epoca. Affronta pugili del calibro di Oberdan Romeo, Gino Cattaneo. Affronta, in più di un’occasione, anche il leggendario e invincibile Francesco Gino Bondavalli, la “Girandola Reggiana”. Leone è forte, ha talento, ma è ebreo. L’Italia comincia a stargli stretta. Non è il posto ideale per un pugile ambizioso ed ebreo. È consapevole che se vuole sfondare deve andar via. Si trasferisce in Francia. Si mette in luce sui ring transalpini e tenta il grande salto. Vola negli Stati Uniti. In America, “Lelletto” mostra tutto il suo potenziale. Ha la sua grande occasione: sfidare il campione del mondo dei pesi piuma, Leo Rodak. Il 29 dicembre del 1938, al “Coliseum” di Chicago, al cospetto di 7000 spettatori, Leone Efrati combatte per il titolo mondiale. L’incontro è trasmesso alla radio statunitense. In Italia, quel match non viene trasmesso. Le imprese di “Lelletto”, del pugile ebreo, non dovevano essere raccontate. L’incontro è equilibrato. Rodak, il grande campione, è in difficolta con quell’italiano tutto cuore e grinta. Al termine delle 10 riprese, il risultato è incerto. Sembrerebbe più giusto un pari, ma, per un soffio, la vittoria viene assegnata a Rodak. Leone ha perso, ma, ormai, la sua carriera è in ascesa. A “Lelletto”, gli americani sono pronti a fare ponti d’oro. È nata una stella nel firmamento pugilistico. Si spalancano le porte del successo, della fama, del denaro. “Lelletto”, però, è triste. Il suo cuore è in Italia. In patria, sono entrate in vigore le leggi razziali. Ha lasciato la sua famiglia: moglie e tre figli. Non se la stanno passando bene. I manager americani gli promettono che faranno di tutto per far arrivare la sua famiglia negli States. Cercano in tutte le maniere di trattenere Leone in America. “Lelletto”, però, è un combattente, è audace. Nonostante le promesse, decide di tornare in Italia. Decide di tornare dalla sua famiglia. Decide di sfidare la sorte e le leggi razziali.
Roma, 1939. I fasti americani sono lontani. La fama, il successo, il denaro, tutto è svanito. “Lelletto” è tornato a casa. Vive di espedienti. Si prende cura della sua famiglia. Vende uova, lacci e stracci per la strada. Dorme per terra, nei portoni dei palazzi. Vive nell'anonimato, clandestinamente, nella speranza di non essere mai trovato dalle squadre nazifasciste. Continua ad allenarsi alla palestra “Audace”. Lì, torna ad essere Leone, il grande campione che ha sfidato Rodak. Lì, vive gli unici momenti felici di un’esistenza “illegale” e precaria. Un giorno, è in una gelateria con suo figlio Romolo. Si sente chiamare: “Leone Efrati!”. Si volta. Le squadre nazifasciste l’hanno trovato. L’efficiente macchina della delazione aveva funzionato. Viene arrestato con il figlio di appena sei anni. L’avevano “venduti” per 8.000 lire: 5000 per lui, 3000 per il figlio. Vengono trasportati alla caserma di via Tasso. In quella caserma Leone scopre che anche suo fratello Marco è stato arrestato. Vengono trasferiti nel carcere di Regina Coeli. Dopo 31 giorni a Regina Coeli, Leone, Marco e Romolo, con centinaia di altri detenuti ebrei, vengono messi su un camion, destinazione Fossoli. Romolo, in maniera rocambolesca, riesce a scappare da quel camion, riesce a tornare da sua madre e a salvarsi. Leone e Marco, invece, giungono al campo di smistamento di Fossoli e, da quest’ultimo, vengono inviati ad Auschwitz.
Ad Auschwitz, Leone torna a combattere. Le SS e i Kapò del campo, per divertimento, organizzavano macabri e drammatici incontri tra prigionieri. Conoscevano le imprese sportive di quell'ebreo italiano. “Lelletto” è costretto a combattere. Non combatte più sul prestigioso ring del “Coliseum” di Chicago. Non combatte più per un titolo mondiale o una “borsa” allettante. Combatte per restare in vita, per un tozzo di pane. Gli aguzzini lo costringono a sfidare pugili più grossi, più forti di lui. Efrati, il peso piuma, deve affrontare massimi e mediomassimi, per soddisfare il meschino passatempo dei carcerieri. Leone è forte, tecnico, audace. “Lelletto” quei folli match, li vince e continua a sopravvivere ad Auschwitz. Ma Auschwitz è un inferno, non è un posto per audaci. I Kapò massacrano di botte Marco, il fratello di Leone. “Lelletto” aveva vinto un incontro che non doveva vincere. Quella vittoria, aveva fatto perdere un mucchio di soldi agli aguzzini che avevano scommesso sulla sua sconfitta. Leone vuole giustizia, vuole vendicare il fratello. Affronta i Kapò ad uno ad uno. Lo fa con coraggio. Ne stende uno, due, tre. Ma sono troppi anche per il forte e audace “Lelletto”. Lo trucidano di botte. Agonizzante, lo conducono a Ebensee, sotto campo di Mathausen. In quel posto dimenticato da Dio, troverà la morte nelle camere a gas.
Questa è la storia di una valigia. La storia della valigia di Leone Efrati. In quella valigia, ritrovata in un vecchio e polveroso magazzino della palestra “Audace”, erano custoditi i guantoni, gli scarpini e il caschetto di “Lelletto”. Quella valigia racconta la storia di un campione, di un pugile, di un uomo…audace.
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