di Daniele Poto - Volerelaluna.

Il Tour de France mette impietosamente alla luce l’irreversibile decadenza del ciclismo italiano. La cartina di tornasole del Giro d’Italia è fallace perché la differenza tecnico-strategica tra le due grandi corse a tappe è considerevole. Più facilmente il Giro d’Italia può essere avvicinato alla Vuelta.

La competitività degli azzurri (buffo chiamarli così, dato che obbediscono a squadre multinazionali) è ristretta a quelli che sono attualmente due comprimari di classifica: l’eterna promessa Fabio Aru e il campione che fu Vincenzo Nibali.

Al secondo era stato disegnato un Giro su misura da podio. Bastava battere Roglic nelle previsioni per rinverdire un curriculum importante, fatto più di piazzamenti che di vittorie ma comunque consistente. La distrazione di un giorno è costata cara. L’outsider Carapaz ha vinto il Giro con quella sottovalutazione. La piazza d’onore poteva essere sufficiente per salvaguardare il prestigio declinante di Nibali ma esigenze commerciali lo hanno spinto all’iscrizione al Tour dove, poco convinto, ha iniziato a collezionare puntualmente minuti di ritardo in ogni tappa con il diversivo evidentemente posticcio di non puntare alla classifica finale ma al successo di tappa. Davvero un po’ poco per un campione, giudicato tra i favoriti alla vigilia e ora relegato in una posizione di classifica ingloriosa. Il ciclismo è uno sport impietoso. Se le gambe non sono collegate al cervello (dunque alla motivazione) vai subito in rosso. Oggi Nibali appare un ciclista appagato e non proiettato verso alcun traguardo. Però il ciclismo è anche business e dunque il siciliano ha già firmato per una nuova sigla che ne utilizzerà le prestazioni nel 2020 e nel 2021. Non riusciamo a immaginare cosa potrà combinare 37enne quando già l’attuale stagione ne ha consacrato i limiti fisici e mentali. C’è un momento per dire “basta” e chi dovrebbe deciderlo se non il corridore stesso? Quello stesso Nibali che fa intuire che non avrebbe voluto correrlo questo Tour, soggiacendo infine a una logica di squadra. Debole argomentazione come debole è la squadra che lo ha subito abbandonato sui primi tornanti.

Meste prospettive per Aru, eterna promessa mai sbocciata, giustificato solo in parte dal ritardo accumulato nella preparazione per i postumi di un intervento chirurgico piuttosto delicato. Aru si avvicina ai trent’anni, godendo del passato più che del futuro. Lontanissimo in classifica dai primi. Come Nibali.

Invece fuori dai confini italiani c’è sentore di novità in un Tour orfano (qualcuno commenta con un “finalmente”) di Fromme. La grande novità è Bernal, giovane e pimpante in un coro di tenori agguerriti per singoli exploit come Alaphilippe e Sagan. L’Italia è affidata solo alle volate di Viviani che si squaglierà non appena la strada inizierà a salire e si consola con Ciccone, scalatore abruzzese, “novello Taccone” che a 24 anni si è preso la soddisfazione di indossare la maglia gialla e cercherà strada facendo di lasciare ancora un segno. Gli altri del branco italico, Tour o non Tour, sono ancora dei prototipi di possibili protagonisti mai sbocciati. Come Moscon, Trentin, Colbrelli. Il citì dei mondiali Cassani cerca di vendere un prodotto poco omogeneo che appare in ritardo con il resto del mondo. Uno come Felline che a venti anni strapazzava i coetanei ora sbarca il lunario alla bell’e meglio.

La metafora scherzosa del momento può essere riassunta da una non competitiva dove Francesco Moser con il sorriso sulle labbra ha staccato Ignazio Moser! Per i francesi – Nibali a parte – il Tour degli italiani è ancora riassunto, soprattutto in tempo di crisi, nel nome di Pantani.

Condividi