di Luca Casarini

Vorrei provare a dare uno sguardo alle elezioni francesi da un punto di vista interessato, e quindi per scelta parziale. Mi interessa capire che cosa indicano i risultati dal punto di vista della società, più che da quello della politica istituzionale. Cominciando dal primo dato: numero dei votanti attorno all’80%. Se pensiamo che questo è il tempo della massima sfiducia nei partiti e nelle istituzioni, che la disaffezione alla politica si accompagna al deficit di sovranità e di democrazia, che dalla crisi non solo nessuno sa come uscirne ma anzi le soluzioni sono peggiori del problema, alla fine questo dato è ancora più dirompente. Cosa significa? Che la gente alla fine a votare ci va. E in massa. Ci piaccia o no, questa è la realtà. Questo è il comportamento della “classe” di fronte alle elezioni nel pieno della delegittimazione del sistema della rappresentanza. Mi si dirà che gli apparati di cattura del consenso capaci di produrre opinione pubblica e di formare immaginari sono potentissimi. Che la gente ci va perché ha paura, perché cerca qualcosa per uscire dalla crisi, perché l’hanno convinta, perché, perché, perché. Non me ne frega niente, o meglio, tutto molto interessante.

Ma il dato di realtà è quello che fanno in milioni e milioni, la stragrande maggioranza delle persone in carne ed ossa, operai, impiegati, studenti, disoccupati, e quindi quel metaforico 99% a cui ci si riferisce sempre: votano. In Europa è così. Traduzione: la sfiducia e l’ostilità verso il sistema della rappresentanza non si trasforma in un suo rifiuto da parte dei cittadini. Quindi potremmo anche dire che la crisi della rappresentanza genera molte cose nella società, nel rapporto con i partiti, come ad esempio la percezione diffusa della fine del loro ruolo di rappresentanza degli interessi sociali, ma al voto si va lo stesso. Ma dunque perché tutti vanno a votare?

E qui la seconda considerazione: ci vanno quando è in gioco un cambio di governo possibile. Cioè nessuno vota il partito per essere rappresentato in Parlamento, ma perché si schiera, o auspica di contribuire a far sì che uno schieramento vada al governo. La crisi della rappresentanza in questo caso è piena: nessuno crede più che con il diritto di tribuna in Parlamento del proprio partitino possa realmente cambiare qualcosa. Non ci credono né dal basso del corpo elettorale, né dall’alto dei gruppi dirigenti. In questo senso è finito il parlamentarismo. La grande massa degli elettori vota per il governo, non per essere rappresentata.
Una riflessione la merita però anche il cosiddetto voto di protesta, il «voto della collera» come è stato definito in Francia. Differente, a destra e a sinistra, per qualità, prospettive e quantità. L’estrema destra fa il pieno di voti come non mai, con Marine Le Pen, come qui probabilmente lo farà Grillo. Le storie diverse di queste formazioni non devono ingannare: è il populismo becero, tendenzialmente xenofobo e arrogante, che ha sia nella versione antieuropeista e nazionalista della Le Pen, sia nella versione tecnoqualunquista di Grillo, una matrice comune.

È il populismo demagogico, quello di chi la spara più grossa, al quale già la Lega ci aveva abituato. I populismi hanno origini e carismi diversi, a seconda dell’aggregatore che li organizza, ma alla fine tendono ad incontrarsi tutti, e tutti sugli stessi punti: gli immigrati basta cacciarli, dall’euro basta uscire, l’Europa basta che sia un campo di combattimento tra patrie o stati o visioni tecnologiche, e così via. Sarebbe un errore pensare che Marine Le Pen è più “nazista” di Grillo: sono e diverranno sempre più populisti di destra, e raccoglieranno consensi perché in questa chiave leggeranno la crisi. Ed è più facile oggi convincere con questi argomenti il “popolo” che non con la solidarietà, la democrazia, il bene comune. La quantità di voti è molto più alta verso queste formazioni che a sinistra.

O per dirla meglio: il populismo di sinistra è troppo timido, ha troppi problemi di coscienza per sfondare. Il complotto delle banche e della finanza sono discorsi che trovi a destra come a sinistra, ma se non ci aggiungi che gli zingari vanno cacciati, che i posti di lavoro devono essere riservati agli autoctoni, che gli immigrati portano le malattie, le preferenze si orienteranno per il populismo più forte, più radicale, senza mediazioni. E questo riguarda le prospettive della polarizzazione a sinistra. Anche qui c’è una grande differenza con la destra. Melenchon, con il suo risultato inferiore al previsto non ha potuto far altro che annunciare il suo sostegno, per il secondo turno, ad Hollande. Intanto perché parte di coloro che l’avevano votato al secondo turno comunque voteranno contro Sarkozy. Il secondo motivo è che solo in coalizione ci sono chances. Invece la destra non ha di questi problemi. L’appello della Le Pen «ai patrioti di destra e di sinistra» rivela un disegno più complesso, che dimostra come la prospettiva del populismo di destra possa contare su una maggiore ampiezza di percorso. Infatti la sconfitta di Sarkò non sarebbe poi così male per il Fn, che diventerebbe il polo rinnovato sul quale riorganizzare una destra disintegrata.

Tutto questo che cosa ci dice? Che ad esempio in questa fase la grande questione è come organizzare fuori dalla finalità elettorale un blocco sociale capace di leggere la crisi e affrontarla da sinistra senza cadere nel populismo. Invece la vicenda elettorale viene utilizzata come motore per organizzare un soggetto sociale e politico “nuovo”. Ciò che accade in Francia e che si ripeterà probabilmente in Italia ci dimostra che il problema non si aggira: è fuori e prima delle elezioni che il soggetto politico e sociale deve prendere forma, organizzarsi attraverso processi che hanno al centro la capacità di esercitare una forza attraverso il conflitto, contro la governance della crisi. È evidente che ciò che accadrà in Francia e in Germania, e tantopiù in Italia dal punto di vista delle elezioni, deve interessarci, ma potremo non esserne travolti o ubriacati solo se ancoriamo nella società reale e non in funzione del voto la costruzione di nuova soggettività.
Le elezioni vanno prese per quello che sono: non vi sono rappresentabili interessi generali, non vi sono parlamenti in cui sperare di avere qualche posto per fare da sponda alle lotte sociali.

Vi sono lotte sociali e governi, e si scontrano o dialetizzano direttamente tra loro. Vi sono dinamiche di governance che possono incepparsi a causa di contraddizioni che rivelano opposte tendenze intercapitalistiche di gestione della crisi. Se uno legge le dichiarazioni del board del Fondo monetario contro la conduzione tedesca delle politiche di austerity, comprende che non siamo in presenza di una granitica ed omogenea espressione di interessi comuni. Vi sono linee di tendenza diverse, che dipendono da molte questioni. Il Fmi auspica l’introduzione degli Eurobond, la fine del rigorismo della Bundesbank, il ritorno a politiche monetarie espansive che invertano la recessione. E perché, forse madame Lagarde si è scoperta socialista? Semplicemente, se l’Europa non è più in grado di acquistare merci americane e cinesi costituisce un problema. E quindi Hollande forse è più sostenuto che non avversato in questo momento da chi auspica un cambio della politica imposta dalla Germania.

Questi cambi, inceppamenti e fibrillazioni a chi sta fuori possono far bene. Senza mai pensare che risolvano, in radice, i problemi. Solo una combinazione di molti fattori, fuori e dentro le istituzioni, possono determinare cicli di cambiamento, fasi di indebolimento della dinamica di controllo sui processi di crisi e quindi momenti di espansione dell’alternativa. Ma se non si consolidano nella società vittorie concrete, come ad esempio quella sull’art.18, sul salario e il reddito e la precarietà, non vi sarà nessun cambiamento per via elettorale. Soprattutto non vi sarà se si pensa di poter rappresentare per via elettorale ciò che si muove fuori dai palazzi. Non è più possibile farlo, se mai lo è stato. Oggi chi sceglie di presentarsi alle elezioni dovrebbe avere il coraggio di dire perché lo fa. E se ci racconta che è per uscire dalla Nato o nazionalizzare le banche ci sta prendendo per il culo. La gente invece, quella vera, non la imbroglierà. Perché voteranno Grillo, che insieme all’uscita dall’euro propone la cacciata dei rom. La prima non la otterrà mai, ma la seconda è sempre a portata di mano.

Da fuori possiamo e dobbiamo interloquire con chi sceglie di proporsi alle elezioni come alternativo a ciò che esiste ora. Ma senza tanti discorsi. Su questioni concrete. Come concreta è la constatazione che con il 2% dei voti o il 4 non stai discutendo con niente, ma solo con qualcuno che ha il problema della rappresentanza propria.

Fonte: Il Manifesto

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