di Stefano Moroselli

C’era una volta il Pci. C’è ancora, e continuerà ad esserci, l’imponente palazzo in stile barocco e neoclassico che dal 1954 al 1991 ha ospitato la federazione comunista di Reggio Emilia, una delle più importanti d’Italia. In un’ala, meno nobile, aveva sede anche la redazione de l’Unità, in un altra il circolo ricreativo Gramsci, dove si giocava a carte, a pallavolo, a basket. Gli attuali proprietari del palazzo, l’avvocato Giovanni Bertolani e il figlio Giorgio, non hanno ancora deciso che futuro dargli, ma intanto hanno completato un lunghissimo e prezioso restauro, durato ben quattordici anni e diretto dall’architetto Paolo Bedogni. Nei giorni scorsi tanti hanno potuto ammirare il risultato, grazie ad una idea della Fondazione Reggio Tricolore, che custodisce l’eredità culturale (e non solo) lasciata dal Pci. La Fondazione, in accordo con i proprietari, ha organizzato una serie di eventi e di visite guidate che hanno attirato centinaia di persone, molte delle quali erano di casa quando il padrone di casa era il Pci. Anche per l’ultimo appuntamento – giovedì 25 maggio il musicista e scrittore Massimo Zamboni presenterà il recital “La trionferà” – c’è già il tutto esaurito.

La storia della prestigiosa dimora patrizia, tra le più importanti per valore storico e artistico nell’intera Emilia Romagna, comincia molto prima di quella del Pci. Correvano gli anni trenta del diciottesimo secolo quando la nobile famiglia Masdoni diede incarico all’architetto Gian Maria Ferraroni di progettarla, inglobando un edificio preesistente. Nei decenni successivi, subentrarono altre famiglie eccellenti dell’aristocrazia, prima i Toschi poi i Rocca-Saporiti. Il palazzo fu sottoposto ad altri lavori e restauri, in particolare da parte dell’architetto bolognese Edoardo Collamarini. Non è facile immaginare come un palazzo del genere, con quel passato e quel pregio, sia potuto passare nelle meno aristocratiche mani di operai, contadini, intellettuali, ex partigiani reduci dalla resistenza armata contro il nazifascismo.

L’acquisto in gran segreto temendo il blocco

I comunisti, subito dopo la Liberazione, avevano sistemato la propria federazione in altra parte della città, prendendo possesso della ex sede fascista, ove restarono per diversi anni. Fino a quando, nel 1954, il governo Scelba intimò lo sfratto: fu un momento di grande tensione, che poteva degenerare in scontri non solo politici. Ma il Pci, attraverso una sottoscrizione tra gli iscritti, aveva già raccolto la somma necessaria per l’acquisto di Palazzo Masdoni. La trattativa di compravendita fu condotta da intermediari e professionisti che tennero riservata fino all’ultimo l’identità dell’acquirente, per evitare il probabile blocco della cessione ai “sovversivi”. I quali, una volta firmate tutte le carte, entrarono in festoso corteo nel prestigioso palazzo.

“Non fu un semplice trasloco – ricorda Alessandro Carri, che adesso ha 92 anni e all’epoca partecipò da attivista della federazione giovanile a quel corteo – l’ingresso a Palazzo Masdoni simboleggiava per noi il passaggio da una classe sociale a un’altra. Ricordo bene l’emozione e l’orgoglio quando vedemmo per la prima volta le sculture, le pitture, le sale … “.

In quelle sale decisioni importanti

Carri è uno dei tre ex segretari provinciali che hanno rievocato aneddoti personali e vicende politiche dei “Rossi a Palazzo”, in una delle conversazioni pubbliche che si sono tenute nello splendido salone della musica. Un tempo teatro di feste e ricevimenti delle più illustri famiglie reggiane, nella seconda metà del secolo scorso il salone fu utilizzato per le assemblee del comitato federale, massimo organismo dirigente del Pci. Da lì passarono anche i più celebri dirigenti nazionali. Lì furono prese decisioni importanti, per il partito e per l’intera comunità reggiana. A volte – raccontano anche gli altri ex segretari Antonio Bernardi e Fausto Giovanelli – dopo discussioni molto accese, ancorché alla fine ricomposte nel rigoroso rispetto del cosiddetto centralismo democratico. “Io stesso fui il primo segretario eletto con voto non unanime. Si pronunciò a sfavore circa un terzo del comitato federale”, chiosa Carri.

Per l’occasione, i tre hanno ripreso posto al grande tavolo ottagonale in legno che per decenni fu muto testimone delle riunioni di segreteria, nel sancta sanctorum della federazione. “Ho calcolato di averci passato migliaia di ore”, sospira Giovanelli. Il pregevole manufatto è un’altra icona ritrovata dei tempi del Pci. Anche la sua storia, seppure non plurisecolare come quella del Palazzo, è lunga e ha un fascino particolare. Inizia tra il 1929 e il 1930, nientemeno che nella sede del partito fascista, in via Cairoli, quando i gerarchi locali decisero di rinnovare l’arredamento. La costruzione del tavolo – altro passaggio curioso, emerso dalle ricerche di Attilio Marchesini, curatore dei Musei Civici scomparso due anni fa – fu affidata alla Cooperativa lavoranti in legno e affini, le cui esperte maestranze erano quasi tutte di fede socialista o comunista. Dunque, attorno al tavolone, in quel periodo si accomodarono i capi fascisti. Qualcuno dice, forse è solo una leggenda, anche Benito Mussolini.

L’uccisione dei fratelli Cervi

Più sicuro è che vi fu decisa la fucilazione dei sette fratelli Cervi, nel dicembre 1943. Quattordici mesi dopo, ne presero possesso i dirigenti comunisti, al cui seguito il tavolo traslocò poi a Palazzo Masdoni. Quando il Pci, nel frattempo diventato Pds, si trasferì in altra e assai più modesta sede, del tavolo si persero a lungo le tracce. Rispuntò in un magazzino della Caritas, ove fu notato da un antiquario che lo fece restaurare e lo mise in vendita a Modena. Se lo contesero – entrambi attratti dalla singolare storia, ma per opposti motivi – un politico romano di estrema destra, Francesco Storace, e i fratelli Bassinghi, imprenditori reggiani figli di un partigiano comunista. La spuntarono questi ultimi e il tavolo – revival di Palazzo Masdoni a parte – ora fa bella mostra di sé nella loro concessionaria di automobili.

Agli ultimi ex segretari del Pci reggiano ho domandato se, tra le centinaia di dirigenti e funzionari che li hanno occupati, fosse chiara la consapevolezza del valore di quegli spazi, di quelle mura, di quei gioielli artistici. Ho domandato come la conservazione di un patrimonio culturale così importante si conciliasse con la più prosaica e quotidiana attività politica. La risposta è stata che sì, la consapevolezza esisteva. E che alla cura del palazzo si prestava la dovuta attenzione, soprattutto per merito dei compagni custodi centralinisti, membri dell’apparato tecnico: Risveglio, il Biondo, Roteglia, Arturo, Cristina, Rupil, Paris... Alcuni, nel palazzo, oltre a lavorarci ci abitavano davvero, insieme alle loro famiglie.

Una scelta sofferta

A Fausto Giovanelli, ultimo segretario del Pci, ho domandato anche quale stato d’animo avesse accompagnato la scelta di lasciare, nel 1991, un luogo così irripetibile. “Fu una scelta sofferta, per quanto dovuta a ragioni molto serie – dice Giovanelli – Da una parte, gli iscritti e le risorse della federazione non erano più quelle dei tempi migliori, quindi era difficile sostenere i costi di gestione per spazi così grandi, tra l’altro ormai eccessivi perché anche il numero dei funzionari era diminuito. Dall’altra, il partito nazionale aveva richiesto alla nostra federazione un contributo consistente per ripianare i conti dell’Unità. Non potevamo fare a meno di vendere proprietà immobiliari, o Palazzo Masdoni o alcune sezioni territoriali. Aggiungo una considerazione più generale: stavano cambiando tante cose, era il periodo del passaggio dal Pci al Pds. Se il momento non fosse stato quello, se non ci fosse stata la concomitanza con il cambiamento del partito, è probabile che avremmo deciso diversamente”.

Collegare presente e passato

Tra una conversazione e l’altra, nel salone della musica ritornato all’originaria magnificenza si diffondono suoni di violino e di arpa. Due giovani musicisti riempiono di note gli intervalli, anche rivisitando inni della tradizione comunista. I relatori di turno – si parla di Enrico Berlinguer, di feste dell’Unità, di un volume di prossima uscita sulla storia dei comunisti reggiani, della eredità politica lasciata dal Pci – provano ad offrire spunti di riflessione utili a collegare un passato che non ritornerà e un presente nel quale la sinistra è ancora alla ricerca di se stessa. Tutti dicono che bisogna evitarla, ma il luogo e le storie rendono inevitabile un po’ di nostalgia canaglia. Che poi mica è così canaglia, non c’è motivo di vergognarsene.

Fonte: strisciarossa.it

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