di Elio Clero Bertoldi

PERUGIA - Il premio Nobel per la Pace attribuito alla filippina Maria Ressa e al russo Dimitri Muratov rappresenta un riconoscimento, meritatissimo, non solo ai due protagonisti principali ma, al tempo stesso, anche al giornalismo ed ai giornalisti, una categoria che da sempre, ed in modo particolare negli ultimi anni, ha versato perfino il sangue, ad ogni latitudine, per svolgere il proprio lavoro di “cane da guardia del potere”. Recita la motivazione del riconoscimento: “Per lo sforzo nel salvaguardare la libertà di espressione, precondizione per la democrazia e la pace duratura”.

L’ultimo giornalista ad essere insignito di questo premio prestigioso fu nel 1911 il viennese Alfred Hermann Fried, anima della testata “Die Friedenswarte”, che venne considerato “il periodico pacifista più efficace” dell’epoca.

Maria Ressa, 58 anni, laureata in biologia molecolare e appassionata di teatro, da anni amministratrice oltre che fondatrice del sito Rappler ed ha combattuto - dopo essere stata reporter investigativa e corrispondente per la CNN - contro il presidente Rodrigo Duterte ed il suo governo, dei quali ha messo a nudo la corruzione, il calpestamento dei diritti civili, la cieca violenza delle squadre antidroga della polizia. É una giornalista pluripremiata, la Ressa. Nonostante questo ha sopportato stoicamente, negli ultimi anni, ben 11 processi; ha dovuto pagare 3 cauzioni in novanta giorni; é stata trascinata in cella due volte ed ha dovuto affrontare persino un periodo di detenzione. Solo per aver cercato la verità ed essersi appellata alla libertà di espressione. E “la verità - come afferma Giovanni nel versetto 32, attribuendo la frase a Gesù - vi renderà liberi”.
Altrettanto bravo e coraggioso Muratov, 50 anni, che ha studiato e discusso una tesi in filologia e che, poco più che ventenne, per due anni ha militato nell’esercito sovietico quale addetto alla apparecchiature di comunicazione. La professione giornalistica il fresco Nobel l’ha iniziata alla “Volzski Komsomolets”. Anche lui si era incamminato sul terreno in cui crescono, infestanti, le violazioni dei diritti umani, della corruzione, dell’illegalità, della prepotenza, della prevaricazione del potere. Insieme ad altri, Dimitri aveva fondato nel 1993 la Novaya Gazeta che, priva di mezzi economici e finanziari - lui e gli altri lavoravano in una stanza spoglia e con scrivanie e sedie malridotte -, si vide consegnare da Mikhail Gorbaciov, una parte del premio Nobel appena ottenuto per poter continuare il proprio compito di informare i concittadini. Muratov aveva svolto il ruolo di corrispondente di guerra in Cecenia e poi, da capo redattore della testata, aveva visto morire assassinati non uno, non due ma ben sei suoi colleghi: Igor Domnikov (2000), Viktor Popkov (2001) Yuri Shchekochikhin (2003), Anna Politkostaya (trucidata in ascensore nel 2006), Anastasia Baburova e Natalia Esterminova (nel 2009, entrambe ammazzate a colpi di arma da fuoco). Nel 2017, da direttore del foglio d’opposizione, aveva gettato la spugna: troppo stressante quel lavoro, osteggiato da Vladimir Putin. Ma due anni più tardi i redattori lo avevano richiamato, all’unanimità e lui aveva riassunto la direzione del periodico con il suo solito spirito di servizio. Dimitri, quando gli é stata comunicata la notizia della vincita, ha dedicato il Nobel ai suoi colleghi massacrati a cominciare dalla Politkostaya. Gesto nobile, degno di un giornalista come lui, che ha ottenuto numerosi premi tra i quali anche, in Francia, la Legion d’onore.
Né la Ressa né Muratov si sentiranno neanche un po’ sminuiti dall’idea che il premio suoni pure come riconoscimento alle migliaia e migliata di cronisti che, nei vari paesi del mondo, subiscono minacce, pressioni, talvolta il carcere, tal’altra le torture, un’altra ancora l’esilio e persino, sempre più spesso, pure la morte. 
Il Nobel per la pace a Maria e Dimitri va letto come un riconoscimento implicito, una mano tesa, un atto di solidarietà a tutti quei cronisti, dai più grandi ai più piccoli, che si spendono, giorno dopo giorno, lontani dai riflettori, cercando verità e giustizia. Per gli altri, per la comunità, prima ancora che per se stessi.

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