di Elio Clero Bertoldi

PERUGIA - "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie". 
Giuseppe Ungaretti nella poesia "Soldati" si riferiva a se stesso ed ai suoi commilitoni impegnati, tra il gelo ed il fango del Carso, nella Prima Guerra mondiale, ferocissima e crudele. 
Tuttavia quei versi richiamano e fotografano, più in generale - e per ciascuno di noi, nessuno escluso - la condizione umana: la sua fragilità, la sua precarietà, la sua casualità. 
Ore 14 del 3 luglio scorso. Appassionati delle escursioni in montagna stanno salendo verso il ghiacciaio della Marmolada - a 3000 metri s.l.m. con l'ansia di raggiungere la vetta; altri scendono felici dello spettacolo di cui hanno appena goduto nel cuore e nella mente. Quasi tutti stanno attraversando, in direzioni opposte, il Pian dei Fiacconi, sotto il sole a picco e con la temperatura a 10 gradi. Una giornata splendida per la scalata. Troppo calda, però: all'improvviso un pezzo di calotta di ghiaccio si stacca, si frantuma e precipita a valle travolgendo e trascinando tutto quello che incontra sul suo percorso, addirittura, nella parte finale, alla velocità di 300 km/h. Devastante.
La terribile tragedia della Marmolada, tra le province di Trento e di Belluno, detta “la Regina delle Dolomiti”, suona a solare conferma dei versi del poeta. 
Una delle vittime aveva appena postato sui social un selfie nel quale urlava la sua gioia, per trovarsi lassù, in alto, lontano - apparentemente - dalle piccolezze e dalle miserie del mondo, dalle beghe più banali alle guerre che distruggono vite, territori, ambienti. 
Gioiva felice, spensierato quel giovane di soli 27 anni, alpinista per passione: pochi minuti più tardi la slavina lo ha trascinato via, inghiottendolo nel fiume di ghiaccio, melma e sassi e spezzando la sua felicità, i suoi sogni, la sua vita. 
E di tutte le altre vittime di quel pomeriggio disgraziato si potrebbero evidenziare riprove della stessa, identica precarietà.
Le indagini della magistratura stabiliranno se esistono responsabilità umane in questa agghiacciante vicenda o se la natura, come spesso avviene, sia stata imprevedibile. Tuttavia, quello che é certo, sicuro, indiscutibile rimane un concetto: la fragilità dell'esistenza. 
Non solamente dei militari in guerra - di quelli del secolo scorso sulle trincee italiane o asserragliati nei fortini austro-ungarici o di oggi nei vari conflitti che insistono (ignorati o dimenticati) in tante parti del mondo - per i quali ogni secondo che passa può portare un proiettile magari di rimbalzo, una assordante granata, un missile distruttivo che semina morte; non solo per gli anziani in là con gli anni o per gli ammalati più gravi per i quali ogni giorno, ogni ora altro non sono che un regalo, ma persino per i più giovani, quelli per i quali la vita é appena sbocciata.
Basta un attimo: una vettura che sbanda, la ruota della moto che scoppia, una ventata che abbatte un albero o che provoca la caduta di una tegola e la Morte - che i nostri antenati rappresentavano, non a caso, armata di una affilata falce con la quale indistintamente tagliare, stroncare esistenze - decide, lei sì che può (ricordate l'Atropo della mitologia greca?), chi parte e chi resta. 
Già perché pure lassù, in cima alla Marmolada, come in tutte le tragedie e gli eccidi, oltre a quelli che per avventura si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, eccone altri che per un ritardo di un amico, per un cambio di programma dell'ultimo istante, per un banalissimo inconveniente, del quale magari stavano già imprecando o comunque cominciavano a dolersi per l’opportunità svanita, non hanno preso parte alle cordate sfortunate e luttuose e si sono salvati. I primi sono deceduti fortuitamente, i secondi continuano a vivere per un motivo altrettanto accidentale.
Il distacco del seracco dal ghiacciaio reca con sé - oltre al dolore ed al cordoglio per le vittime, allo sgomento per l’ennesima angosciante disgrazia - anche un insegnamento, sul quale ognuno di noi, dovrebbe riflettere a fondo: l'Uomo non é padrone proprio di nulla, anche se pensa, con vuota superbia e cocciuta vanità, di esserlo. 
É, piuttosto, un fuscello in balìa dei venti. Può decidere delle cose ininfluenti, minime: parlare o restare in silenzio, fermarsi o camminare, ordinare un piatto gustoso, aprire le pagine di un libro, partire per un viaggio. O anche di scelte importanti: dedicarsi al Bene, o compiere il Male. Non é però in grado di condizionare, influenzare, determinare la propria vita, il proprio futuro. Tutti elementi che dipendono da altro che non dalla volontà di ciascun mortale: dalla divinità (per i credenti) o dal fato (per gli atei). 
Si legge nel Quoelet: "L'uomo non può scoprire la ragioni di quanto avviene sotto il sole: per quanto si affanni a cercare non può scoprirla". Ed aggiunge, ancora, in maniera diretta, esplicita: "Nessun uomo é padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della sua morte".

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