Mentre Matteo Renzi profonde ogni energia per blindare per un altro decennio un modello elettorale maggioritario che garantisca, in spregio alla Costituzione, il bipolarismo tendenzialmente bipartitico preteso, senza significativi distinguo, da tutto il centrosinistra e da tutto il centrodestra, l’economia italiana, il suo sistema manifatturiero vanno a ramengo, e con esso milioni di lavoratori abbandonati a se stessi, senza rappresentanza, né politica né sindacale. 
Anzi, con pervicace recidività, e con la corriva complicità di gran parte dei media, il governo continua a spacciare un’immagine contraffatta della realtà e delle prospettive di ripresa, di continuo annunciate da Letta e soci come imminenti, prossime, anzi certe.

Peccato che le cose vadano in tutt’altro modo. E tutti i dati a disposizione, oltre all’empirica constatazione di cui ognuno di noi è testimone, sono lì a dimostrarlo.
Del mezzo milione di cassaintegrati candidati al definitivo licenziamento abbiamo già parlato ieri. 
Oggi vi diamo conto della dinamica dei fallimenti, diciamo, per stare sul pezzo, di quelli dell’ultimo trimestre dello scorso anno. 
Ebbene, il rapporto di Cribis D&B, società del gruppo Crif (il database creditizio italiano) racconta che le imprese costrette a gettare la spugna sono state il 14 % in più rispetto allo stesso periodo del 2012. Ed altre se ne aggiungeranno, come è facile prevedere se si guarda ai pagamenti commerciali, con ritardi che ormai superano abbondantemente i trenta giorni e che prefigurano molto spesso imminenti collassi aziendali. 
Insomma, la recessione imperversa, ogni ora chiudono due aziende e non c’è settore o comparto o area geografica che vengano risparmiati da un’emorragia senza fine: in Lombardia, dove hanno chiuso oltre 3.200 aziende, che fanno il 22,6% del totale nazionale; nel Lazio, con circa 1.500 fallimenti; nel Veneto, con 1300 chiusure. Se edilizia e commercio all’ingrosso sono i macrosettori più colpiti, nel comparto produttivo spiccano i 1650 fallimenti registrati nel complesso dell’industria.

Ebbene, di fronte ad un simile disastro e nella sconfortante assenza della “mano pubblica”, si muove in questi giorni la Confindustria. Precisamente quella di Pordenone, dove troviamo le sedi legali italiane di multinazionali come Electrolux (ex Zanussi) e Ideal Standard, entrambe intenzionate a tagliare posti di lavoro e delocalizzare gli investimenti dove il costo della manodopera è inferiore. E qual è la proposta innovativa della locale associazione industriale? Semplice: stipulare un patto territoriale con i sindacati e con la Regione Friuli che preveda un abbattimento dei salari del 20 per cento nelle grandi imprese ed un 10 per cento nelle piccole che si trovino in crisi o che intendano insediarsi nell’area friulana o che, sebbene non in difficoltà, intendano aumentare l’occupazione. Insomma, una deroga generalizzata ai contratti collettivi, un perfetto sistema di dumping sulle retribuzioni, che fonda la ripresa delle imprese che ne beneficiano sull’innesco di un piano di concorrenza sleale nei confronti delle imprese che invece il contratto continuano ad applicarlo. E sapete come i soloni di Confindustria hanno chiamato questa geniale pensata partorita dalle fervide menti di eccelsi dottori come Tiziano Treu, già ministro del lavoro nel governo Prodi, giuslavorista ed estensore dell’omonimo, famigerato “pacchetto”; come Maurizio Castro, già senatore Pdl ed ex manager della stessa Electrolux; come Riccardo Illi, imprenditore ed ex presidente della Regione Friuli Venezia Giulia? Ebbene, l’hanno battezzata, con invidiabile senso umoristico, “Laboratorio per una nuova competitività industriale”. Una competitività costruita sull’ulteriore abbattimento delle magrissime retribuzioni dei lavoratori italiani. Provate ad immaginare se questo luminoso esempio trovasse altri emuli. Se questo modello in gestazione si affermasse e divenisse pratica corrente. Se ora altre regioni, o altri territori raccogliessero la sfida al ribasso e offrissero ad un’imprenditoria stracciona condizioni ancora più favorevoli. Vorrebbe dire, e già siamo ad un passo da quella soglia, tornare alla legge della giungla, alla modernità ottocentesca, alla civiltà dei caporali che fissavano la paga a giornata ed elargivano nelle pubbliche piazze il “regalo” del lavoro ad una plebe sottomessa e senza parola.

Ieri denunciavamo, su queste pagine, un non dissimile comportamento del governo serbo e la risposta di rigetto, ci auguriamo efficace e vincente, del sindacato di quel paese. 
In Italia, invece, la lotta sembra essere stata derubricata dal vocabolario e dalla pratica sindacale. Anzi, qui da noi può accadere che il più grande sindacato italiano, la Cgil, decida che il contratto nazionale è un retaggio di stagioni passate e che si possono sottoscrivere con i padroni clausole punitive per chi, in dissenso con le centrali confederali, intenda esercitare il diritto costituzionale di sciopero. 
Questa folle corsa all’indietro può e deve essere fermata. Una volta sapevamo che il progresso dei lavoratori coincide con il progresso dell’intera società e che uguaglianza e democrazia – non il loro contrario – sono il motore di uno sviluppo sano. Da tempo questa consapevolezza si è persa, perché sono prevalse, nei rapporti di forza come nel senso comune, false teorie, ideologismi che contro ogni verità vanno contrabbandando con successo la tesi fraudolenta che non esistono contraddizioni di classe, ma solo fra generazioni, o fra individui in guerra reciproca (la chiamano “competizione”) per la sopravvivenza, in un mondo nel quale – vanno blaterando- “non ce n’è più per tutti”. 
Finché non torneremo a convincerci (e a trovare la forza e gli argomenti per convincere) che non è così sarà difficile rovesciare l’ordine di cose esistenti.

Dino Greco

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