Di Galapagos

La forbice più famosa e conosciuta, di questi tempi, è quella tra i rendimenti dei Btp italiani e dei Bund tedeschi, ma ce n’è una ancora più insidiosa: quella prezzi/salari che in ottobre si è ulteriormente allargata producendo una perdita netta nel potere d’acquisto dei lavoratori. Questo significa – sul versante macroeconomico – che per milioni di persone sta diminuendo la capacità di spesa con conseguente flessione dei consumi (o, in alternativa, meno risparmio e aumento dei debiti) con riflessi pesanti sulla crescita del Pil. Un disastro dai pesanti riflessi sociali che, oltretutto, allontana i tempi della ripresa. Rispetto a una retribuzione lorda di 2 mila euro (meno di 1400 euro netti) l’erosione salariale provocata dalla crescita – non recuperata dei prezzi – rappresenta una perdita di 34 euro al mese. Per qualcuno, forse, non è tantissimo, ma per moltissimi i soldi in meno – soprattutto per le famiglie monoreddito – significano dover stringere un po’ di più la cinghia.

Secondo quanto comunicato ieri dall’Istat in ottobre la forbice prezzi/salari si è ancora allargata, toccando l’1,7%, contro il precedente massimo dell’1,3%. Lo scorso mese, infatti, le retribuzioni orarie contrattuali sono rimaste ferme, ma in crescita dell’1,7% su base annua. Nello stesso periodo l’inflazione ha toccato, però, il 3,4% portando il divario ai massimi dal 1997. Per essere ancora più chiari, la crescita tendenziale dei salari in ottobre risulta pari alla metà di quella dell’inflazione.

Alla fine di ottobre risultano in vigore 47 contratti di lavoro, che regolano il trattamento economico di circa 8,7 milioni di dipendenti. A questi corrisponde il 61,7% del monte retributivo complessivo. I contratti in attesa di rinnovo sono 31, di cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione, relativi a circa 4,3 milioni di dipendenti (circa tre milioni nel pubblico impiego).
Purtroppo, il trend della divaricazione tra inflazione e salari non sembra destinato – nei prossimi mesi – a ridursi. Oggi l’Istat comunicherà il dato provvisorio sull’aumento dei prezzi in novembre e, secondo molte previsioni, il dato tendenziale (novembre 2011 su novembre 2010) sembra destinato a salire ulteriormente. Probabilmente al 3,6%. Ma non è finita: se Monti opterà per un nuovo aumento delle aliquote Iva per fare cassa, nei prossimi mesi i prezzi al consumo potrebbero schizzare all’insù e toccare un aumento tendenziale del 5%. A fronte di questa crescita i salari sono fermi o quasi.

Alcuni sono immobili per i provvedimenti di politica economica del governo Berlusconi che ha bloccato fino al 2014 le retribuzioni del settore pubblico. Altre retribuzioni sono ferme in quanto i «padroni» non si degnano di rinnovare i contratti scaduti. La quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è, infatti, del 33,1% nel totale dell’economia e del 12,9% nel settore privato. L’attesa del rinnovo per i lavoratori con il contratto scaduto è in media di 22,4 mesi nel totale e di 23,4 mesi nell’insieme dei settori privati. Risultato: a ottobre, lo sottolinea l’Istat, nessun accordo in attesa di rinnovo è stato siglato.

Con riferimento ai principali macrosettori, dai dati Istat emerge che in ottobre le retribuzioni orarie contrattuali hanno registrato un incremento tendenziale dell’1,9% per i dipendenti del settore privato e dello 0,6% per quelli della pubblica amministrazione. Non deve sorprendere che nonostante il blocco contrattuali, nel settore pubblico le retribuzioni stanno aumentando un po’. A fronte di salari fermi per i ministeriali, i dipendenti della scuola, quelli delle regioni e degli enti locali e del servizio sanitario nazionale, aumenti contrattuali dignitosi sono stati concessi ai dipendenti del settore militare e della difesa (+3,7%) delle forze dell’ordine (3,5%) e dei vigili del fuoco (3,1%).

Al di fuori del settore pubblico, un discreto aumento è segnalato per i lavoratori della gomma, plastica e lavorazioni minerali non metalliferi (+3,1%). Insomma, se in Grecia si è dato un taglio netto alle retribuzioni dei dipendenti pubblici, in Italia si persegue lo stesso obiettivo nel tempo bloccando per quattro anni i rinnovi contrattuali e facendo mangiare i salari dall’inflazione. Di più: il blocco dei salari sta anche penalizzando chi nel pubblico impiego ha maturato la pensione il cui importo sarà più basso di quanto sarebbe potuto essere senza il blocco.

Altra pessima notizia l’ha data ieri il Centro studi Confindustria: a novembre la produzione è diminuita di un altro 0,1%. Certo, c’è un recupero (+ 9,4% dai minimi toccati nel marzo 2009) ma resta ancora del 19,1% la caduta dal picco del ciclo precedente (aprile 2008). E i salari – lo dimostra l’Istat- non hanno alcuna colpa.

Fonte: Il Manifesto

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