di Matteo Minelli
John Fitzgerald Kennedy e Diego Armando Maradona avevano pochissime cose in comune.
Entrambi assumevano droghe, entrambi trattavano le donne come oggetti, entrambi avevano rapporti con la malavita.
Eppure al presidente della Baia dei Porci, dell’escalation in Vietnam, della collaborazione con McCarthy, dell’appoggio dei segregazionisti del suo partito è stato perdonato tutto.
I voti di Giancana, le prostitute alla Casa Bianca, la vicenda controversa di Merylin: tutto cancellato. Perché era ricco, era potente e sapeva comportarsi da gentleman. Perché era nato a Boston da due delle più influenti famiglie della città, perché aveva frequentato le migliori scuole private, perché sapeva usare bene forchetta e coltello. E così è passato alla storia per le medaglie in guerra (meritate), per la retorica a Berlino, per le battaglie (a metà) sui diritti civili.
A Diego invece è stato rinfacciato tutto. Perché lui era nato a Villa Fiorita, in una casa che ancora oggi ha intorno sassi e lamiere. Perché sua madre saltava i pasti fingendo mal di stomaco quando in tavola il cibo non bastava per tutti. Perché suo padre si alzava alle quattro e andava nella fabbrica di macinazione per dare un futuro agli otto figli. Perchè Diego rubava le zucche dal giardino del vicino, perché giocava per le strade polverose della Buenos Aires più povera, perché era poco più che alfabetizzato, perché era stato povero e non lo aveva mai dimenticato. A Diego non si poteva perdonare di non essersi addomesticato, di non aver fatto come tanti altri morti di fame che grazie al calcio diventano ricchi e, almeno formalmente, iniziano ad atteggiarsi da signorini. Diego no, non si “normalizzava”: firmava contratti milionari ma continuava a comportarsi come uno del barrio. Sempre rifiutandosi di sedere dall’altra parte della storia e tenendosi stretto quel ruolo di condannato ab eterno che la vita gli aveva assegnato.
Un ruolo che lo ha fatto finire sempre sul banco degli imputati in processi dove le sentenze erano, e sono ancora emesse, da: giornalisti imbellettati, potentati da strapazzo, opinionisti da quattro soldi e un massa infinita di persone che dal mazzo della vita certo non ha pescato le carte spiegazzate che il destino ha dato in mano a Diego Armando Maradona.
Ma se Diego è stato un eroe o un criminale, un benefattore o un violento, un traditore o un drogato; se è stato tutto questo insieme non sono loro, e nemmeno io, a poterlo dire.
Perché solo gli oppressi hanno il diritto di ergersi a giudici di se stessi e della propria storia. Solo la loro parola conta. E allora che parlino i ragazzi scalzi che giocano sulla terra polverosa, le donne emarginate e maltrattate, i vecchi piegati dalla fatica, gli sfruttati e gli ultimi di tutto il mondo.
Loro sono gli unici a poter emettere una sentenza nei suoi confronti.
E a me pare proprio che l’abbiano già fatto.John Fitzgerald Kennedy e Diego Armando Maradona avevano pochissime cose in comune.
Entrambi assumevano droghe, entrambi trattavano le donne come oggetti, entrambi avevano rapporti con la malavita.
Eppure al presidente della Baia dei Porci, dell’escalation in Vietnam, della collaborazione con McCarthy, dell’appoggio dei segregazionisti del suo partito è stato perdonato tutto.
I voti di Giancana, le prostitute alla Casa Bianca, la vicenda controversa di Merylin: tutto cancellato. Perché era ricco, era potente e sapeva comportarsi da gentleman. Perché era nato a Boston da due delle più influenti famiglie della città, perché aveva frequentato le migliori scuole private, perché sapeva usare bene forchetta e coltello. E così è passato alla storia per le medaglie in guerra (meritate), per la retorica a Berlino, per le battaglie (a metà) sui diritti civili.
A Diego invece è stato rinfacciato tutto. Perché lui era nato a Villa Fiorita, in una casa che ancora oggi ha intorno sassi e lamiere. Perché sua madre saltava i pasti fingendo mal di stomaco quando in tavola il cibo non bastava per tutti. Perché suo padre si alzava alle quattro e andava nella fabbrica di macinazione per dare un futuro agli otto figli. Perchè Diego rubava le zucche dal giardino del vicino, perché giocava per le strade polverose della Buenos Aires più povera, perché era poco più che alfabetizzato, perché era stato povero e non lo aveva mai dimenticato. A Diego non si poteva perdonare di non essersi addomesticato, di non aver fatto come tanti altri morti di fame che grazie al calcio diventano ricchi e, almeno formalmente, iniziano ad atteggiarsi da signorini. Diego no, non si “normalizzava”: firmava contratti milionari ma continuava a comportarsi come uno del barrio. Sempre rifiutandosi di sedere dall’altra parte della storia e tenendosi stretto quel ruolo di condannato ab eterno che la vita gli aveva assegnato.
Un ruolo che lo ha fatto finire sempre sul banco degli imputati in processi dove le sentenze erano, e sono ancora emesse, da: giornalisti imbellettati, potentati da strapazzo, opinionisti da quattro soldi e un massa infinita di persone che dal mazzo della vita certo non ha pescato le carte spiegazzate che il destino ha dato in mano a Diego Armando Maradona.
Ma se Diego è stato un eroe o un criminale, un benefattore o un violento, un traditore o un drogato; se è stato tutto questo insieme non sono loro, e nemmeno io, a poterlo dire.
Perché solo gli oppressi hanno il diritto di ergersi a giudici di se stessi e della propria storia. Solo la loro parola conta. E allora che parlino i ragazzi scalzi che giocano sulla terra polverosa, le donne emarginate e maltrattate, i vecchi piegati dalla fatica, gli sfruttati e gli ultimi di tutto il mondo.
Loro sono gli unici a poter emettere una sentenza nei suoi confronti.
E a me pare proprio che l’abbiano già fatto.
 

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