dr. Letizia Cerqueglini, Università di Beer Sheva

PERUGIA - Il deserto non è più deserto. Almeno dal 2008 da quando Beer Sheva è nel mirino, insieme ad Ashdod, Ashqelon e i villaggi più vicini a Gaza. In realtà nessun deserto lo è mai stato, non come a noi piace romanticamente immaginarlo. Per gli arabi il deserto è come il mare: lo spazio sconfinato che nessuno abita ma che tutti attraversano. La linea porosa del fronte del Negev si è rivelata negli ultimi giorni per le forze israeliane una frontiera difficile da difendere, e il deserto si è rivelato all'improvviso un non-luogo segnato dai solchi impercettibili della storia, dalle correnti incessanti della globalizzazione: armi, schiavi, prostitute, droga, metalli. La notte nel deserto è buia e umida, si avanza alla cieca, appesantiti dall'attrito della sabbia. Lo spettacolo delle stelle lascia senza fiato.

La gente, chi può, scappa da Beer Sheva presso amici e parenti, esasperata dalla pioggia di qassam e grad che in questa settimana è piovuta sulla città, in alcuni casi ferendo e uccidendo. Il vicino di casa, un professore di origini statunitensi, è appena venuto a farmi visita e a tranquillizzarmi: se senti un boato è il rumore degli aerei, se senti colpi a ripetizione, sono i soldati che si esercitano nella base vicina. Della guerra non ha fatto menzione. A pensarci bene, la guerra non è stata dichiarata, eppure Hamas ha dichiarato infranta la tregua. E in queste ore si tratta per il cessate il fuoco, tra Israele e Hamas. Quindi una guerra c'è stata, fra Israele e Hamas, che ormai rappresenta il governo palestinese. E, a quanto hanno dichiarato oggi i suoi affiliati, anche quello egiziano.

I caccia israeliani vanno e vengono, notte e giorno, dalla scorsa settimana, da quando i grad hanno iniziato a colpire Beer Sheva e sono stati messi a segno gli attentati sulla strada per Eilat. Sono più frequenti negli ultimi due giorni. A volte superano la barriera del suono e il boato che producono fa rimbalzare le imposte socchiuse per il caldo e mi spaventa. All'inizio pensavo che andassero a Gaza, a compiere la rappresaglia. Ma erano troppi. Adesso mi rendo conto che stanno trasferendo le truppe verso il confine con l'Egitto. Da qui sono circa trenta km, non più. Sono a trenta km dal nemico: Israele è grande in tutto come la Toscana, non ce lo dimentichiamo. Dei nemici si sente anche l'odore. Se l'Egitto decide di entrare in guerra dobbiamo evacuare verso nord.
"L'Egitto? O Hamas? "L'Egitto è nostro, l'Egitto è di Hamas!" gridavano ieri i militanti, mentre hanno cercato di buttare fuori a calci l'ambasciatore israeliano al Cairo.
Ma contro Hamas Israele non è già in guerra? Punti di vista, forse. (Un tempo la guerra si apriva con rulli di tamburi e con altrettante fanfarre finiva: quando abbiamo dismesso questa buona abitudine?).
La frontiera del deserto è la linea più lunga, la più difficile da difendere, quella che può tenere impiegati il maggior numero di soldati. Non dimentichiamo mai che Israele è pressappoco grande come la Toscana. E demograficamente è un paese occidentale.

Da questo pomeriggio sento elicotteri in continuazione: la notte del deserto, piena di grilli, insetti, fruscii, latrati di cani si è fatta silenziosa. Gli animali sono nervosi.

Sono una linguista, studio dialettologia araba, da un anno circa faccio il dottorato sulle varianti dialettali dell'arabo dei beduini all'Università Ben Gurion di Beer Sheva, nel Negev, il deserto che proprio David Ben Gurion, da cui la mia Università prende il nome, voleva far fiorire raccogliendo qui gli ingegni ebraici perseguitati nella diaspora europea: "Chi non crede nei sogni non è realista", diceva. Avrebbe dato loro una patria, lavoro, studio, famiglia, una nuova vita, una nuova dignità, una sovranità politica. Anche io, come i vecchi pionieri delle foto sbiadite, dall'Italia sono approdata qui per fare ricerca, in questo deserto che adesso non ha confini né pace. Le spoglie di Ben Gurion, la sua tomba, sono qui a poche centinaia di metri, custodite dal questa terra riarsa. In molti vengono a visitare qui nel Negev la tomba del padre della moderna patria ebraica. Anche i beduini hanno qui intorno le tombe dei loro patriarchi e matriarche, circoli di pietre in cima alle alture che segnano insieme lo spazio e il tempo trascorsi nei loro viaggi dall'inizio del tempo. Sin dalla preistoria, con blocchi di pietra sulle cime dei crinali, gli abitatori antichi di questi luoghi crearono altari, o eressero tombe o forse calendari astrologici: se ne trovano a decine qui intorno e si discute sul loro significato. Quando i beduini si imbattono in questi sacrari, si fermano, fanno un'offerta, aggiustano le pietre del recinto, ripartono. Come faceva Abramo, probabilmente, quando, racconta la Bibbia, passò di qui e patì la fame con le sue greggi, tanto da voler andare in Egitto. Negev e Sinai sono un unico grande micidiale deserto, la propaggine settentrionale del deserto arabico: lo spazio che sin dai testi Assiri del secondo millennio a.C. è popolato da bellicosi pastori nomadi, selvaggi, avventurieri, criminali, outsider, spiriti e profeti: la strana, divina, ambivalenza tra l'estrema purezza e la crudeltà estrema che caratterizza gli ecosistemi inospitali. Solo terra e sassi, luce e vento. Poca materia e tanta energia.

Ho chiesto al mio vicino che cosa stia succedendo. Non sono israeliana, non sono ebrea, ma sono qui e se la guerra ci sarà venderò cara la pelle. Ha detto: "E' solo politica. Da quando sono qui è così. Trent'anni. Non succederà niente nemmeno questa volta". "Come andrà?", "Andrà tutto bene". La gente è morta, però, e non era per scherzo. Ero seduta in un ristorante chic di Beer Sheva riempiendomi di antipasti, pesce alla griglia e vino bianco. Gli attentati c'erano già stati, i qassam cadevano ancora e sul maxi schermo scorrevano le immagini delle barelle che entravano a Soroca, l'ospedale cittadino. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita. E' la prima volta che mi capita di essere sotto tiro. Ma non è il caso di ricordarlo ad uno che qui ha deciso di far crescere i propri figli. Chi non crede nei sogni non è realista, mi ripeto mentalmente.

Eppure le cose in trent'anni sono cambiate, avrei voluto dirgli, eccome se sono cambiate.

Probabilmente è vero che oggi come ieri l'Egitto non ha la forza militare per competere con Israele, ma l'Egitto al momento non ha un'identità politica. Come entrano le armi a Gaza. Dalla caduta di Mubarak comodamente via terra, su camion, dai porti del Sudan. E Hamas, nel frattempo, ha messo a tacere Fatah e persino il presidente dell'ANP Abu Mazen: esasperato dalle promesse non mantenute da Europa e America circa la mediazione per il proseguimento delle trattative per la pace e l'indipendenza, Abu Mazen annunciava in marzo che la Palestina avrebbe fatto da sola, dichiarandosi entro settembre indipendente e sovrana. Un progetto suicida, se preso alla lettera, che esce dal solco giuridico dei trattati di Oslo del 1993, i quali prevedono una dichiarazione di indipendenza concordata tre le due parti. Forse le suggestioni libertarie della primavera magrebina hanno mosso l'animo del presidente dell'ANP, nelle cui parole, però, si sentiva vibrare forte soltanto lo sconcertato risentimento di chi è rimasto isolato in patria e dimenticato all'estero.

E infatti, Israele non si prepara ad una guerra contro la Palestina. In questo preciso istante, nel deserto che sembra lontano da tutto ma si lascia ben osservare e ascoltare, Israele rafforza i pattugliamenti dell'area sinaitica e delle frontiera egiziana, proseguono regolarmente le esercitazioni militari, si spostano le truppe e i materiali, si rafforzano le barriere difensive. Ci si prepara a combattere le infiltrazioni terroristiche dall'Egitto attraverso il deserto.

Un muro anche nel deserto? Se ce ne sarà bisogno, sì.
Ma allora, l'indipendenza della Palestina non ha un rapporto con la primavera araba?
La primavera araba è un movimento di rivendicazioni sociali ed economiche interne ai paesi protagonisti, che non ha toccato la Palestina. Interessa piuttosto la Siria e il Libano, dove si consumano terribili e inumane repressioni sui dissidenti. Probabilmente l'Iran cerca di spostare l'attenzione da una strage ad un'altra, per proteggere i suoi regimi vassalli. Tra cui c'è sicuramente anche l'attuale Hamas. Hamas, infatti, non ha l'autorità di ingerirsi nelle questioni egiziane, né la struttura per pilotare a suo favore il vuoto di potere creatosi a seguito delle rivoluzioni arabe di quest'anno: Hamas agisce localmente, non è il fine, è solo il mezzo.

Lo stile, ovvero la strategia, delle ultime azioni terroristiche (molti attentatori, ben organizzati, assalto all'autobus e alla macchina lungo la strada) lascia intendere, secondo gli esperti, l'entrata a Gaza, attraverso l'Egitto, di istruttori iraniani per addestrare gruppi scelti locali.

Una vera e propria rete del terrore attraversa il deserto, sulla cui superficie, apparentemente, come diceva il mio disilluso/ottimista vicino, non si muove niente di nuovo. Il deserto dà l'illusione di essere uno spazio scoperto, dove non ci possono essere sorprese, un luogo dove aspettare annoiati il nemico, sfiniti dallo spazio e tediati dal tempo, come faceva il tenente Giovanni Drogo, protagonista del celebre romanzo di Dino Buzzati, "Il deserto dei tartari". Era il 1940 quando uscì questo romanzo incentrato sul tedio di un orizzonte che non prometteva più adrenalina. Di lì a poco non ci sarebbe più stato il tempo di annoiarsi. 

Nella lingua dei beduini del deserto del Negev c'è una preposizione, min khard, che indica l'apparire di qualcosa da un non luogo, dal nulla. Può succedere. E il deserto non è più deserto. 

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