di Nicola Sellitti - Il Manifesto - 10.12.2019

La Russia assente a Tokyo 2020, ai Mondiali di calcio in Qatar e alle Olimpiadi invernali di Pechino, nel 2022. La pesante sanzione arrivata da Losanna, era nell’aria dopo la richiesta da parte del Comitato revisore dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada) di uno stop della presenza russa ai grandi eventi internazionali per almeno un quadriennio. Si tratta della sanzione più pesante nella storia dell’olimpismo- per recidiva nel falsificare i dati dei controlli antidoping sui suoi atleti- subita da Mosca. Il Comitato esecutivo della Wada ieri ha stabilito anche l’esclusione della bandiera russa dai Giochi: agli atleti resta solo la possibilità di gareggiare sotto una bandiera neutrale mentre la Russia ha 21 giorni per presentare il ricorso al Tas, la Corte internazionale dello Sport. Questo è l’ultimo capitolo di uno scandalo che già quattro anni fa ha impedito ai russi di partecipare alle ultime due Olimpiadi, privati anche della bandiera ai Giochi invernali di Pyeongchang 2018, puniti per l’insabbiamento delle pratiche proibite ai Giochi di Sochi 2014.

DUNQUE Russia punita, indebolita, ma dalla vicenda non esce pulita la stessa Wada, che è stata spettatrice non pagante di altri casi di doping di stato che hanno toccato altre grandi potenze. Solo due anni fa la Wada ha aperto un fascicolo corposo sull’utilizzo di sostanze proibite nella pratica sportiva dei propri atleti in Cina. La denuncia dell’ex medico della squadra olimpica del paese orientale, Xue Yinxian (fuggita in Germania sette anni fa con una richiesta di asilo politico), avrebbe rivelato, attraverso un’intervista a un’emittente tedesca, un complesso sistema di doping. La Cina – che tra il 1980 e il 1990 ha accumulato medaglie su medaglie in tutti gli sport nazionali, avrebbe sottoposto oltre 10 mila piccoli atleti, under 11 a trattamenti con sostanze illecite.
Giovanissimi sportivi che non potevano rifiutare le pratiche dopanti, pena esclusione dalla squadra. E sempre sulla Cina, poche settimane fa a Montreux, in Svizzera, è partito il processo sportivo contro il nuotatore Sun Yang, 26 medaglie d’oro in carriera tra Giochi, Mondiali, che avrebbe distrutto nel settembre 2018 provette con urina e sangue nella sua abitazione cinese.

UN CASO aperto nel 2014: Sun aveva infatti utilizzato una sostanza vietata dalla Wada, la trimetazidina. E mentre l’eco del caso Sun si ampliava, l’ex mezzofondista Wang Junxia, argento ai Giochi di Atlanta nei 5 mila metri piani, sul sito cinese Tencent raccontava di esser stata forzata, assieme ad altri nove colleghi, all’uso di sostanze vietate nel corso degli anni. Risultato: 66 record nazionali e mondiali ritoccati. Junxia non è mai risultata positiva a un controllo antidoping, anzi è stata inserita nella Hall of Fame della federazione internazionale d’atletica. Ma il fenomeno doping non riguarda solo Russia e Cina: tre anni fa il New York Times ha aperto un capitolo sull’utilizzo di sostanze proibite anche nello sport americano, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta.

A TIRARE le fila il Comitato olimpico nazionale a stelle e strisce che sosteneva il sistema illegale. Medaglie, affermazioni prestigiose e record ottenuti con il trucco, con il benestare di dirigenti olimpici, sponsor. Dallo sciatore Kerry Lynch, secondo nella combinata nordica ai Mondiali di sci nel 1987, che ha confessato le trasfusioni di globuli rossi con il placet della federazione alla leggenda Carl Lewis, che nel 2003 ha ammesso di non aver superato tre test antidoping 15 anni prima contro gli stimolanti.

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