di Roberto Ciccarelli

Provate allora a immaginare un mondo senza moderatori e orientatori delle reti sociali. Oppure, senza rider che portano a casa la birretta al consumatore che lo disprezza chiamandolo “Glovo” o “Deliveroo”, con il nome dell’azienda e non con quello di “lavoratore”. E ancora, senza autisti Uber o senza ingegneri che costruiscono algoritmi che poi la forza lavoro diffusa nella rete allena a diventare “intelligente”. Ecco, si fermerebbe tutto. Ignorare questo aspetto a dir poco evidente, questo è l’orientamento diffuso nella cultura dominante, e dunque anche nell’alluvionale produzione saggistica sulla rivoluzione digitale, significa rimuovere un aspetto altrettanto determinante: l’automazione è accompagnata dalla disintegrazione del salario, mentre la ricerca di un reddito prende strade impensabili.  Questa è la realtà materiale del capitalismo delle piattaforme. Pensiamoci quando, nella policrisi capitalistica, parleremo di potere d’acquisto, inflazione e calo dei redditi. A questo esito collabora l’automazione governata in termini capitalistici. 

Il libro di Celia Izoard introduce in questo discorso un elemento decisivo: il rapporto tra chi come gli ingegneri pensano, e realizzano, un dispositivo digitale e la società dell’automazione. Un rapporto di natura subalterna al racconto teologico dell'automazione, la cui comprensione è utile per chi sente la necessità di un punto di vista materialista sulla rivoluzione digitale in corso. La domanda rivelatrice di questa condizione è: “Un ingegnere, sarebbe una persona che produce qualcosa senza preoccuparsi delle conseguenze di ciò che produce?”.

Fonte: facebook.com/ciccarelli.roberto

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