di Roberto Bertoni.

Mai come in questo momento si avverte, in ogni angolo del mondo, il bisogno di un nuovo pensiero politico di sinistra. Mai come in questo momento l'avanzata della peggior destra che si ricordi dal dopoguerra sta compromettendo gli equilibri di un pianeta reso sempre più fragile dal complessivo incremento demografico e dall'inquinamento che ne sta minando la tenuta democratica e ambientale.
L'Italia, da questo punto di vista, non solo non fa eccezione ma ne avrebbe bisogno assai più degli altri paesi, essendo in preda ad un pericoloso nichilismo che induce buona parte dei commentatori a vergare editoriali da disfamondo e molti giovani ad arrendersi, a lasciarsi andare, a pensare che il baratro attuale sia purtroppo immutabile. Non è così, ma affinché se ne convinca la maggioranza dei cittadini è necessario organizzare una forza politica capace di trasformare le belle idee e i buoni propositi in una concreta azione sociale, puntando senza remore al governo del Paese.
Se la sinistra ha commesso un errore, specie alle nostre latitudini, è stato infatti quello di trasformarsi in mera testimonianza, di rassegnarsi ad accettare un ruolo subalterno, di farsi egemonizzare, culturalmente e politicamente, dalla destra, scadendo prima nel liberismo sfrenato figlio della Terza via e poi nelle misure securitarie all'inseguimento della Lega di Salvini. Una Lega che, peraltro, avevamo già inseguito sul finire degli anni Novanta, quando pensammo bene di varare la riforma del Titolo V della Costituzione per assecondare quel mantra pseudo-federalista che non ha fatto altro che rendere l'Italia ancora più divisa e diseguale di quanto già non fosse.
Se si vuole ripartire, tuttavia, bisogna avere il coraggio di dire la verità, innanzitutto a se stessi: negli ultimi venticinque anni, la sinistra mondiale non è stata quasi mai la soluzione bensì una parte del problema. La sinistra ha tradito gli ultimi, i deboli e i disperati, il suo ceto sociale tradizionale, chi ha bisogno della politica per veder affermati i propri diritti, chi senza di essa si ritrova abbandonato a se stesso al cospetto di una globalizzazione ingestibile, le periferie degradate di cui tutti si riempiono la bocca ma per le quali nessuno o quasi fa nulla e anche chi ancora crede che l'utopia abbia un senso e che senza di essa tutto degradi nel cinismo, nella volgarità e nella barbarie.
La sinistra o pseudo-tale, non solo da noi, ha oggi lo sguardo arrogante del primo della classe, di chi ce l'ha fatta, di chi pretende di saperne sempre più degli altri e di chi gode intimamente ad umiliare il prossimo. È il partito della ZTL e dei centri storici, dei luoghi in cui il reddito consente di vivere in un effettiva condizione di benessere e della derisione sistematica del lavoro e dei suoi diritti. È la formazione di riferimento di un certo ceto manageriale, di chi può permettersi il perdurare dello status quo, di chi non ha bisogno della politica per trovare un posto nel mondo, di chi ha una visione della società individualista e sprezzante, di chi non sopporta nemmeno che si parli di collettività, di chi pensa che basti l'affermazione dei pur sacrosanti diritti civili per far progredire la comunità e che i diritti sociali siano ormai un inutile orpello. Tanto per citare un esempio, il Partito Democratico, o quel che ne resta, si sta trasformando in una sorta di Partito radicale di massa, senza il coraggio dirompente e le intuizioni geniali del Pannella che fu e senza quel gusto dello sberleffo, dell'irriverenza e della battaglia anche fisica che consentì a questi ultimi, a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, di contribuire attivamente ad alcune conquiste democratiche fondamentali.
Non solo in Italia, la sinistra di fatto non esiste più, almeno per come l'abbiamo conosciuta e intesa storicamente. Lo stesso PSE dubito che abbia ancora un senso, dopo che per anni si è crogiolato in una sconcertante mediocrità, rendendosi protagonista del mancato sostegno alla Grecia in ginocchio e di un cedimento su tutta la linea alla destra economica e regressiva che ha fatto il bello e il cattivo tempo in Europa, finendo col mettere in dubbio il suo avvenire.
Chi scrive non ha mai coltivato alcuna ambizione sovranista; tuttavia, non vuole nemmeno lasciarsi ingannare dell'europeismo stucchevole e controproducente di chi si ostina a pensare che basti dare una mano di vernice all'impianto attuale, magari portando a casa un pur doveroso Ius soli continentale, perché i dannati della globalizzazione tornino a sentirsi al centro di un progetto comune.
L'Europa e il mondo com'erano prima della Grande crisi non torneranno e aggiungerei per fortuna. Per fortuna, perché i sepolcri imbiancati che, specie a sinistra, hanno governato nei vari paesi lasciano dietro di sé un'eredità imbarazzante: un disastro senza giustificazioni né alcuna possibilità d'appello, una catastrofe sociale che fa il paio con le politiche di Bush ed è propedeutica al trumpismo di questa maledetta stagione.
Eppure, ed è la notizia più bella degli ultimi tre decenni, nel fango della crisi e tra le macerie di una società in frantumi, è cresciuta una generazione di sinistra che dall'Europa agli Stati Uniti, anziché rassegnarsi come molti le avevano consigliato di fare, è scesa in piazza, si è messa in gioco e si è ribellata come meglio non avrebbe potuto, ossia dialogando con la generazione contestatrice dei Sanders e dei Corbyn, dando vita ad un'autentica alleanza nonni-nipoti e poi candidandosi in prima persona, elaborando piattaforme radicali di cambiamento, pensando, scrivendo e tenendosi per mano, in un abbraccio globale che ha favorito momenti di incontro, condivisione e autentica e splendida solidarietà.
Questa generazione globale, che poi è anche la mia, cresciuta nell'epoca di internet e della rivoluzione social, anziché chiudersi in casa e in se stessa, almeno in parte, ha scelto di condividere le proprie esperienze e di porre al centro del dibattito politico mondiale temi come il rispetto dell'ambiente, del paesaggio e del territorio, la dignità dell'istruzione, del lavoro e dei salari, la lotta contro le disuguaglianze, peraltro sempre più insostenibili, di una globalizzazione dissennata e per nulla democratica e, più che mai, il rifiuto di ogni forma di cinismo, di apatia, di resa politica e culturale. A questa generazione, ovunque si batta, avverto il dovere di dire grazie. E a chi lotta in Italia vorrei dire di incontrarci, di stare uniti, di ricostruire una comunità di pensiero e d'azione perché non sta scritto da nessuna parte che ci si debba rassegnare all'orrore imperante.
I nostri venti-trent'anni ci impongono di essere altro, di pensarla diversamente, di avere coraggio, di gettare il cuore oltre l'ostacolo, di criticare e costruire al contempo, di cercare insieme una via globale per riparare questo mondo guasto e, infine, di volerci bene perché fin troppo odio ha pervaso e continua a pervadere la nostra società. È una missione che può riempire degnamente una vita. 

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