Ini­zia con un lungo applauso ai cento anni di Pie­tro Ingrao la dire­zione in cui Renzi chiede su di sé «un voto di fidu­cia» sull’Italicum. Quell’Ingrao che nel ’66 seppe dis­sen­tire dinanzi al segre­ta­rio Luigi Longo all’XIesimo con­gresso del Pci. Cinquant’anni dopo, la dire­zione Pd è un ring, e alli­neati e dis­si­denti se le suo­nano di santa ragione. Fini­sce con un voto all’unanimità sulla rela­zione del segre­ta­rio, un voto bul­garo per così dire: le mino­ranze com­pat­ta­mente non par­te­ci­pano. Unite per ora, in aula si vedrà. Sulla loro divi­sione Renzi scom­mette aper­ta­mente: nella rela­zione fa l’elenco dei dis­si­denti buoni e di quelli cat­tivi. I buoni sono quelli che sull’Italicum chie­dono «un ritocco alla Camera, è un’esigenza poli­tica», i cat­tivi sono invece «la parte mino­ri­ta­ria, quelli che «o fai così o c’è il voto segreto. È un ricatto e al ricatto non si risponde» . Il cat­tivo, anzi cat­ti­vis­simo, sarebbe Alfredo D’Attorre, reo di aver spie­gato sul Cor­riere della sera che una spac­ca­tura del Pd «può avviarci verso esiti impre­vi­sti». In ogni caso agli uni e agli altri Renzi risponde no: nes­suna modi­fica alla legge elettorale.

A niente serve l’appello acco­rato di Roberto Spe­ranza, ber­sa­niano mode­rato ma anche capo­gruppo alla camera che ha disci­pli­na­ta­mente chie­sto per conto di Renzi l’anticipo del voto in aula. Chiede di tro­vare un’intesa nel Pd: «Rischiamo la spac­ca­tura», «se usciamo di qui senza una parte del Pd, usciamo non con riforme più deboli. Per que­sto «mette a dispo­si­zione» il suo ruolo di capo­gruppo. Mar­gine di trat­tiva non c’è. E lo dimo­stra il fatto che Renzi non ha pre­vi­sto la replica finale. Sta­volta non finge nean­che di fare la sin­tesi: la posi­zione del Pd è quella del segretario-premier, pren­dere o lasciare. Si uni­sce all’appello Gianni Cuperlo: chiede solo «un incre­mento dei col­legi», non le vitu­pe­rate pre­fe­renze, non si arrende «all’idea che su un tema così deci­sivo la prima fon­da­men­tale unità non si possa cer­care all’interno della nostra comu­nità». Ma annun­cia che se l’Italicum resterà quello di oggi, alla camera non voterà.

Il dibat­tito si scalda parec­chio. La «vec­chia guar­dia» non inter­viene. Ber­sani resta per lo più fuori dalla sala e va via prima della fine. Mas­simo D’Alema, nella gior­na­tac­cia del suo nome uscito nelle inter­cet­ta­zioni dell’inchiesta sulle tan­genti a Ischia (lui si dichiara «offeso, indi­gnato ed estra­neo») non c’è per pre­ce­denti impe­gni. Il più cat­tivo del giorno è uno della nuova gene­ra­zione, D’Attorre. Il suo, dice, è un «dis­senso pro­fondo» su una legge «incom­pa­ti­bile con il sistema par­la­men­tare». Nes­sun ricatto, piut­to­sto la minac­cia di un voto di fidu­cia sulla legge elet­to­rale, che Renzi ha lasciato sci­vo­lare nella rela­zione, sarebbe «un vul­nus inso­ste­ni­bile poli­tico e rego­la­men­tare». Quanto all’altra minac­cia, velata — nean­che troppo — quella del voto anti­ci­pato, D’Attorre chiede prima un con­gresso: «Dicia­molo e orga­niz­ziamo un con­fronto interno che con­senta di arri­vare all’obiettivo avendo misu­rato gli argo­menti di fronte a nostri iscritti e mili­tanti». Non è finita, D’Attorre annun­cia anche che con una spac­ca­tura nel Pd «le riforme al senato fini­ranno su un bina­rio morto». Una dichia­ra­zione di guerra, non c’è che dire. «Un ricatto», lo defi­nirà il ren­ziano Mat­teo Richetti.

Anche Ste­fano Fas­sina, altro volto dei ber­sa­niani intran­si­genti, va giù duro: «State minando i fon­da­menti della demo­cra­zia», «stiamo cam­biando la forma di governo in un pre­si­den­zia­li­smo di fatto ma senza con­trap­pesi», «cosa suc­ce­derà non alle pros­sime ele­zioni, quando il Pd con il 40 per cento pren­derà il pre­mio, ma con un par­tito che ha un con­senso ristret­tis­simo e prende il pre­mio?». Poi il depu­tato esplode anche sul diritto al dis­senso e invita a «inter­venti liberi»: «Evi­tiamo un tasso di con­for­mi­smo para­go­na­bile al par­tito comu­ni­sta nor­d­co­reano». La pla­tea rumo­reg­gia. Di lì in avanti sfi­lano al micro­fono tutti «liberi pen­sa­tori» libe­ra­mente alli­nea­tis­simi, ren­ziani della prima seconda e terza ora, fino a un Gen­naro Migliore, ultimo arri­vato in mag­gio­ranza diret­ta­mente da Sel, che spiega come «difen­dere certa tra­di­zione della sini­stra sia un tra­di­mento». Il vice­pre­si­dente della camera Gia­chetti fa uno show: bac­chetta Ber­sani per non aver votato il Mat­ta­rel­lum quando poteva farlo, anzi­ché chie­derlo ora. E se la prende con Fas­sina e gli altri, per i quali «il voto in dire­zione per voi è utile solo quando la mag­gio­ranza ce l’avete voi». Per ora la mino­ranza tiene. Renzi, con buona dose di rea­li­smo, è sicuro che sul voto finale si spac­cherà. Ma prima ci sarà la guer­ri­glia di Mon­te­ci­to­rio: in prima com­mis­sione, dove oggi ini­zia l’iter, la mino­ranza conta 12 com­po­nenti su 23 (fra loro ci sono anche Ber­sani, Bindi, Cuperlo e D’Attorre). Per ora la dire­zione sep­pel­li­sce con un 120 a zero l’applauso ini­ziale a Ingrao, mae­stro del dissenso.

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