di Antonello Tomanelli

Se guardiamo ai vincitori di questa edizione degli Australian Open, possiamo dire che tutti gli sforzi per scoraggiare e distogliere dalle proprie performances atletiche chi in qualche modo richiamava il conflitto russo-ucraino, ma con il quale non c’entra un tubo, è miseramente fallito.
Tra i maschi, ha vinto Novak Djokovic, serbo, quindi ovviamente filo-russo. Lo testimonia la foto che ha immortalato il padre fuori dallo stadio accanto a tifosi serbi con la bandiera russa, subito dopo il passaggio di Novak alle semifinali. Il padre pagherà con l’esclusione dal box del figlio nelle rimanenti due partite.
E poi, l’anno scorso Djokovic fu umiliato davanti a tutto il mondo proprio a Melbourne, quando le autorità australiane, a poche ore dall’inizio del torneo, lo espulsero perché non vaccinato. Insomma, il bad boy si è preso una bella rivincita. In tutti i sensi.
È andata persino peggio nella disciplina femminile. Ha vinto Aryna Sabalenka, bielorussa, che ha battuto in finale Elena Rybakina, naturalizzata kazaka ma nata e cresciuta a Mosca, come decine di colleghi e colleghe che a 18 anni chiedono la cittadinanza kazaka, attratti dalle promesse, sempre mantenute, di soldi, coach validi e strutture moderne per il salto di qualità. Iniziativa sulla quale Mosca non ha mai avuto nulla da ridire.

Insomma, questo Australian Open è andato molto male, avranno pensato a certi livelli.
Certo, rimane sempre la soddisfazione di aver sbianchettato la bandierina che nel display del punteggio identifica la nazionalità degli atleti.
Almeno quello hanno potuto farlo, visto che nessuno se l’è sentita di scimmiottare gli inglesi di Wimbledon, che avevano addirittura vietato la partecipazione degli atleti russi. Qualcuno del Comitato Internazionale Olimpico, l’organo apicale dello sport, si sarà finalmente letto con attenzione la Carta Olimpica, una sorta di Costituzione, scritta proprio dal CIO, i cui primi tre articoli contengono una miriade di riferimenti al divieto di discriminazione nello sport.
E probabilmente saranno arrivati alla conclusione che sbianchettare i colori della Russia davanti a miliardi di persone, ma consentendo comunque la partecipazione dei suoi atleti, non è una discriminazione. Lo sbianchettamento riguarderebbe la Nazione di appartenenza dell’atleta, non l’atleta in sé. La discriminazione, quindi, ricadrebbe su un’entità statale, diversa dalla persona fisica, che non è tutelata né dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, né dalla Carta Olimpica.
In ogni caso, potrebbe registrarsi l’effetto contrario a quello voluto. Tutti hanno associato sino all’ultimo le spettacolari performance di atleti e atlete a quella bandierina coperta, che ha finito per identificarle rispetto alle altre. Insomma, può funzionare se l’atleta non va avanti. Ma se arriva a vincere, gli interrogativi su quello sbianchettamento diventano troppi.

Fonte: facebook.com/antonellotomanelli

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