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Caro Citto, è vero che in ere congressuali volano parole grosse – esagerate – e che sarebbe bene sgomberare il campo dall’uso di epiteti come “golpe” o “stalinismo” (per altro scioccamente riduttive del loro significato reale e del loro contenuto di sangue e di morte). Del resto, come ben sai, la storia tende a riprodursi in farsa – e che senso ha immaginare Citto (o Stefania) nei postpanni di Zdanov? Su questo, spero, siamo d’accordo. Ma ci sono alcuni passaggi della tua epistola a Nichi Vendola che un po’ mi inquietano e un po’ mi stimolano. Perciò, anche se in quella famosa conferenza riminese da cui nacque Rc io non c’ero, mi permetto di scriverti. Allora. Trovo un po’ sorprendente che tu rivendichi allo schieramento di cui oggi fai parte il merito democratico: a) di non aver sbattuto fuori da viale del Policlinico Franco Giordano e i suoi collaboratori; b) di non aver proceduto al “commissariamento” di Liberazione e del suo direttore. Si tratta di tentazioni, se mai le hai, o le avete avute, né buone né legittime, almeno fin quando Rifondazione Comunista resta un consesso civile, e non diventa una palestra di wrestling. Ma che cosa m’inquieta di queste tentazioni quasi confesse? L’idea sotterranea che in fondo era soprattutto su una persona, l’ex-segretario, che avrebbe potuto concentrarsi una punizione simbolica – logistica e di status – della sconfitta generale. L’idea ancor meno sotterranea che un giornale di partito avrebbe dovuto (o dovrebbe) immediatamente adeguarsi all’impostazione di una “nuova maggioranza” interna. Una maggioranza non sancita da un congresso e dal confronto democratico tra gli iscritti: frutto di una scelta legittima, certamente, ma un’operazione assai “spregiudicata” (come si usa nella politica corrente, quella che forse anche tu tante volte hai deprecato) altrettanto certamente sì. Nulla di così drammatico, per carità. Forse, però, una concezione del partito un po’ datata. Non vorrai un “fortilizio” – ti credo – anche perché nel mezzo del 2008, della globalizzazione e del tumulto sociale e culturale che ci ha portato al disastro del 13\14 aprile anche i più solidi fortini son diventati liquidi, Bauman docet. Non vorrai un partito “chiuso” o “arroccato”, certo che no – nessuna persona intelligente può dotarsi di un tale obiettivo programmatico. Ma un partito molto tradizionale, con la sua linea politica sempre e comunque rigidamente rispettata da tutti, compresi i suoi “organi di stampa”, con le sue gerarchie democratiche, con tempi e ritmi propri, con la sua cultura, stabile e consolidata, da trasmettere alle nuove generazioni, insomma, un partito che resiste e non si contamina, più di tanto, con il “fuori da sé”, questo, sì, credo che tu lo sogni – o lo preconizzi, o lo consideri auspicabile. Un sogno rispettabile, giacché si tratta del più significativo, storicamente parlando, “idealtipo” di forza politica. Non è il mio. E non credo neppure che oggi un tale modello sia concretamente realizzabile, ma non dico che tu hai torto e noi abbiamo ragione (trovo un po’ sciocca e pericolosa, oggi, ogni posizione che non sia di dubbio, o di ricerca, e metto nel conto, fino in fondo, l’ipotesi di esserci radicalmente sbagliati, e di continuare a sbagliare). Più semplicemente dico che in Rifondazione Comunista, tu dalla sua nascita, io da quattordici anni, ci siamo stati avendo in testa un significato diverso di quel fascinoso sostantivo – Rifondazione. La fascinosa impresa di una Rifondazione che non abbiamo davvero mai compiuto, ma che oggi, molto più di ieri, si è fatta urgente, anzi imprescindibile. Ma di questo, chissà, avremo modo di parlare. Come della tua polemica contro il leaderismo, la cui ultima manifestazione sarebbe la candidatura di Nichi Vendola alla segreteria del Prc. A me pare si tratti della scelta giusta: Nichi è un dirigente politico vero, che è riuscito a vincere battaglie difficilissime (come in Puglia), che ha letto (oltre che scritto) qualche libro e che ha, oltretutto, il “torto” di esser dotato di una straordinaria capacità di comunicazione (col popolo in carne ed ossa, non solo in Tv). Si può non amarlo? Ovviamente si può – Oliviero Diliberto, per esempio, non lo ama e da Caracas invia l’appoggio del suo partito alla “mozione Ferrero”. Si può rimanere insensibili al suo fascino? Ci mancherebbe. Quel che non capisco, è il passaggio dalla critica (sacrosanta) al leaderismo imperante al rifiuto tout court di un possibile leader, sul quale iscritte e iscritti sono limpidamente e trasparentemente chiamati a decidere. Se i compagni della mozione 1 non hanno ancora formalmente avanzato la candidatura di Paolo Ferrero, dev’essere per problemi interni di coalizione, mica per omaggio alla democrazia di base - immagino che tu conosca questi problemi assai meglio di me. E se poi qualcuno di quegli stessi compagni, in nome della polemica contro i capi, si diletta a seminare giudizi ingenerosi e moralmente intollerabili su Fausto Bertinotti (cioè sul leader politico che per quasi tre lustri ha consentito al Prc di essere un protagonista pieno della scena politica e sociale, e sull’intellettuale politico che resta a tutt’oggi la risorsa più preziosa della sinistra italiana ed europea), mi aspetto da te una netta presa di distanza – il rifiuto, magari pubblico, di ogni pratica detta del “capro espiatorio”, e del gusto di sparare sul quartier generale, naturalmente a quartier generale sconfitto. E c’è un’altra cosa che non capisco bene. A parte la letteratura sull’Uebermensch (che non c’entra nulla con il leader), l’intera storia del movimento operaio ha attraversato la questione dei “capi”, o del “capo”, senza mai realmente né poterne fare a meno né, scusa il gioco di parole facile, venirne davvero a capo (c’è un piccolo classico, in proposito, che si potrebbe utilmente rileggere, La funzione della personalità nella storia di Plechanov). Tutti i partiti comunisti, non solo il Pcus, hanno avuto alla loro testa leader forti, segretari che disponevano di forte potere politico, anche personale, e che certo spesso non sottoponevano le loro scelte ad una discussione collettiva preventiva. Tutta la storia del Pci è cosparsa di “svolte”, inversioni di rotta, strappi brucianti alla tradizione e alla cultura politica dominante – dalla svolta di Salerno alla rottura del legame con l’Urss, annunciato nientemeno che in televisione. Per citare solo quest’ultimo esempio, Enrico Berlinguer non per caso fu accusato di “cesarismo” e gestione monarchica del partito – non aveva altro modo, forse, per tentare di innovare quell’elefante burocratico che era ancora, allora, il Partito comunista italiano. Ora, naturalmente, non dico che tutto questo vada bene, o vada ereditato acriticamente – anzi, forse è una delle eredità del ’900, appunto, che più di tante altre va vagliata, discussa, riflettuta. Dico, cioè, che si tratta di una questione di grande complessità e spessore storico-politico, resa in questa fase ancor più complicata dal potere mediatico e dall’accesso di cui si può (o non si può) disporre. Come puoi semplificarla così brutalmente, sia pure a forza di raffinate citazioni letterarie? Come fai, cioè come hai fatto, a parlare di guru, precipitando a livelli polemici davvero non degni di te e della tua storia? Oltretutto, quando ci si avventura su questi terreni, le contraddizioni fioccano: nella mozione che hai sottoscritto, viene delineato il nuovo campo dei “paesi fratelli”, Palestina, Cuba, Venezuela. Gli ultimi due, quanto a eccessi di leaderismo, non hanno molti concorrenti. Allora: se Nichi Vendola è una scorciatoia leaderistica, come vanno considerati Castro e Chavez? Condividi