di Curzio Malaparte (*)

Che tutti gli Umbri fossero matti, come già m’avevan detto, m’accorsi subito la mattina che scendemmo alla stazione di Perugia, ai primi di giugno del 1915(...).
E mi accorsi poi, nei tre anni che rimasi nella Brigata Cacciatori delle Alpi, in gran parte formata di soldati umbri, che non soltanto quelli di Gubbio, ma quelli di Perugia, di Spoleto, di Città di Castello, di Umbertide, di Terni avevan tutti, dal primo all’ultimo, e chi più chi meno, un ramicello di quella singolare pazzia che molti, chi sa mai perché tengono in conto di misticismo, e chiamano spirito virgiliano, ascetico, serafico, francescano (…).

Poi, dopo un mese trascorso nel convento di Monte Ripido, partimmo per il fronte: e furon quattro anni di guerra, sul Col di Lana, sulla Marmolada, sul Grappa, sulle rive del Piave e dell’Aisne, nei boschi di Bligny e di Verdun, sulle quote pelate dell’Asolone e dello Chemin des Dames. Tutti matti, non c’era da dubitarne: ma più degli altri quelli di Gubbio e di Città di Castello, che dicevano “tulì”, che dicevano”tulà”, che dicevano”tascpène, capitèno, mi ha fatto mèle” e si aizzavano, si mordevano, si azzuffavano tra loro, sempre ridendo, sempre vociando, ed erano i più strani soldati che io avessi mai potuto immaginare. Quelli di Assisi eran mezzi frati e mezzi contadini, camminavano con gli occhi per aria, ma non c’era pericolo che inciampassero, tanto erano abituati a considerare il cielo come un riflesso della terra, anzi dei loro campi e delle loro vigne. Quelli di Spoleto sembravano eremiti sbucati allora allora dalle spelonche e dalle selve spoletane, stavan di vedetta in ginocchio tra due sassi, come se pregassero, sparavano fucialete come se sparassero al demonio. Quelli di Terni parlavano a bocca torta, erano i più rabbiosi, gli unici in fatto di arrabbiature, di bizze e di spregi, capaci di tener testa a quelli di Perugia e di Umbertide. Lenti e tranquilli gli Orvietani, e facevan razza con quelli di Todi: gente ferma, cupa, chiusa, ma piena, al tempo stesso, di capricci, d’invenzioni, d’umori bizzarri. (...)

Una volta, a un tale che s’era buttato per terra sotto una raffica di mitragliatrici, uno di Gubbio gridò; “che male vuoi che ti faccia una palla nello stomaco, con la salute che hai?”. Un tal altro, di Umbertide, per certo torto che credeva di aver patito da un graduato, si tolse una scarpa, e per rabbia se la mise trai denti, cominciò a morderla, se la voleva mangiare, e se non gliel’avessero tolta di bocca se la sarebbe ingoiata tutta. Un altro, ferito durante l’attacco al Sasso di mezzodì, lo stesso giorno in cui morì Enzo Valentini di Perugia, si trascinava indietro urlando non di dolore, ma di rabbia. Ogni po’ si voltava verso il nemico, sputava in aria, gesticolava, rideva: e a un compagno che, con suo grave rischio, era accorso a portargli aiuto, diede un gran pugno nella testa, gridando: “ficca il naso negli affari tuoi!” e seguitò a trascinarsi per terra ridendo, sputando, vociando, e facendo sotto le raffiche delle mitragliatrici i più strani versi del mondo. Finchè vomitò sangue, e tacque.
Tutti così, tutti matti. Erano uomini pieni d’estro e di coraggio meravigliosi, e, insieme, di pazienza. Ma anche quella straordinaria pazienza era una forma della loro pazzia(...)

Erano così poco preoccupati e ansiosi della vita futura ,tanto gli Umbri sono diversi come se li immaginano gli inventori della ‘mistica Umbria’, che parlavano di morire come se si fosse trattato di andare in licenza invernale. Discorrevano di Dio e dei Santi con una singolare familiarità, ma senza ombra di sacrilegio: come di persone di famiglia, come di compaesani. Per quelli di Gubbio, Dio era di Gubbio. Per quelli di Passignan del Lago, Dio era di Passignan del Lago.

A Bligny, il terzo giorno della battaglia, quando orami tutto il bosco era pieno di migliaia di morti e di feriti, ed eravamo rimasti sen’acqua, senza pane, senza cartucce, senza bombe a mano, senza mitragliatrici, il cappellano del 52° Reggimento, Don Secondo, rincuorava i superstiti dicendo: “Dio vi guarda, ragazzi”. Un tale gli gridò: “digli che ci avesse a dà una mano!” era come se si rivolgesse non a Dio, ma a un loro ufficiale, come se chiedessero cartucce e bombe al loro Colonnello. In quel mentre il nemico tornò per la ventesima volta all’assalto con le sue tanks e i suoi lanciafamme, e tutti quei matti gli si buttarono addosso, vociando e sghignazzando. S’udivan tra gli alberi, nell’immenso bosco pieno di fumo, urli di feriti e scoppi di risa, voci terribili e strane. E in realtà il nemico fu fermato, a Bligny, non dal fuoco delle nostre poche mitralgiatrici e dei nostri scarsi cannoni, ma dalla meravigliosa pazzia di quei contadini dell’Umbria”.

(*) Curzio Malaparte, da Umbria matta , Corriere della Sera, 3 luglio 1938.
Nome d'arte di Curt Erich Suckert, è stato uno scrittore, giornalista, militare, poeta e saggista italiano, nonché diplomatico, agente segreto, sceneggiatore, inviato speciale e regista cinematografico, una delle figure centrali dell'espressionismo letterario in Italia e del neorealismo.
Dal suo libro "La Pelle", un famoso film omonimo di Lilliana Cavani.

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