di Enrico Sciamanna.

La storia è raccontata senza dati. È vera ma non sono né le persone che contano, né i riferimenti geografici specifici.

Una famiglia dell’Europa dell’est, moglie e marito si trasferiscono in Italia alcuni anni or sono, entrambi al proprio paese avevano un lavoro dignitoso, ma le mutate condizioni politiche li spingono a alla scelta di venire da noi. Qui iniziano con umiltà a svolgere le attività che gente come loro si adatta a fare, perché ciò che guadagnano è sufficiente per far condurre ai familiari rimasti in patria una vita che possa avere un senso. Un lavoro, anzi molti lavori, alcuni dei quali in nero, combinati con i sacrifici: un’abitazione modestissima, orari stancanti, pause rare. Sono persone vere quelle di cui si sta parlando, quindi si può aggiungere che sono benvolute, perché garbati e disponibili, come se il loro atteggiamento non dipendesse soltanto dal carattere, ma anche da un senso di gratitudine verso un paese e i suoi abitanti che li accolgono e gli permettono di stare “meglio” di come sarebbero stati nella propria nazione. Lei è una donna molto robusta e volonterosa, umile, lui apparentemente burbero, ma in realtà gentile e, soprattutto lavoratore instancabile. Finché non si ammala, molto seriamente. Ma resiste alla gravissima malattia e continua a curarsi e a lavorare. La malattia procede e mette moglie e marito, insieme ai figli, davanti a scelte drammatiche: restare in Italia a curarsi con spese sopportabili o tornare al proprio paese dove le medicine sono inaccessibili per il loro reddito e le condizioni generali: disponibilità di alloggi, prossimità ai luoghi di cura, sarebbero tragiche. Allora la scelta che si pone è: morire dignitosamente qui o partire per terminare la propria esistenza in patria, vicino a famigliari ed amici? Le due possibilità propongono una differenza di 13.000 euro, tanto costerebbe il trasporto della salma, in quanto la sepoltura al proprio paese è irrinunciabile e una cremazione, che renderebbe più agevole il trasporto dei resti, si avanza come una difficoltà insormontabile, perché l’uomo, nonostante qualche medico pietoso si sia mostrato ottimista, è condannato, si tratta di settimane. Quindi la decisione è andarsene da vivo, con costi di trasporto accettabili e cercare di procurarsi le medicine in Italia, dove continuerebbe a conservare il diritto di curarsi.

Le considerazioni sono molte a cominciare da quelle di carattere sentimentale, continuando con quelle politiche: un pensiero umanista che si ispirava agli stessi principi che fino all’89 governavano il paese di nascita delle persone di cui si parla, come quello che ha determinato l’affermazione del diritto alla salute, avrebbe permesso che condizioni come queste si potessero verificare nel mondo, non era un’ideologia che sosteneva l’uguaglianza dei diritti, la solidarietà dello stato, l’attenzione verso tutti, l’internazionalismo? Che fine ha fatto quell’idea? Anche se non si possono addossare direttamente colpe alla politica italiana per ciò che accade nel pianeta. Oggi un po’ di sollievo a quella famiglia è stato dato dalla carità dei vicini. Che mondo è quello che permette che la politica sia sostituita dalla solidarietà personale, aleatoria e non obbligatoria? Se quel sentimento, quella mentalità, agonizza bisognerebbe fare in modo di curarla, se fosse morta, unico scampo per tanta parte della popolazione della terra, si dovrebbe risuscitarla.

 

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