di Elisabetta Piccolotti.

Sulla scissione del Pd fino ad ora non ho letto granché di interessante. I commentatori si cullano su letture di comodo: la scissione che è un regalo a Berlusconi o a Grillo, oppure il frutto del nuovo corso proporzionale, oppure il divorzio dopo il matrimonio mal riuscito tra margherita e ds, oppure il segno di rapporti personali distrutti. Io non sono d'accordo: l'implosione del pd è il frutto di un fallimento storico, culturale e politico. E' il frutto di una perdita di funzione clamorosa e della difficoltà a darsene un'altra che sia condivisa ed efficace. Che sia utile a coloro che si vuole rappresentare. Il Pd era nato per accompagnare in Italia i processi di globalizzazione dei mercati e di conseguenza il ridimesionamento del ruolo del pubblico e dello Stato come ente regolatore dell'economia, come erogatore di welfare e di servizi pubblici. Per anni il Pd ha svolto "egregiamente" questa sua funzione: ha privatizzato le aziende pubbliche, ha liberalizzato il mondo dei servizi, ha ripensato la scuola in funzione del mercato, ha aziendalizzato il settore sanitario, ha dato l'abbrivo alla precarizzazione del lavoro, ha contribuito a costruire un'Europa dei governi e ad impedire che nascesse un'Europa dei cittadini. Fare tutto ciò implicava prima di tutto trasformare la sinistra italiana, erede del Pci e della sua portentosa organizzazione sociale, in una sinistra più concentrata sul governo dei processi globali che sulla progettazione e costruzione di una società alternativa. Un operazione gigantesca, per fare la quale ci sono voluti vent'anni, si sono sciolti partiti, si sono costruite fondazioni che accompagnassero il percorso con un'elaborazione intellettuale e teorica, si sono bruciati la maggior parte dei gruppi dirigenti giovani che erano cresciuti dentro un'altra cultura politica e uno schema diverso. Il Pd ha governato così tanto da diventare quella forza che -appunto- governava la riduzione della qualità della vita e delle tutele per i più deboli senza incontrare - per ovvie ragioni - la forte opposizione sociale che più volte sbarrò la strada alle destre quando queste si posero gli stessi obiettivi. L'antiberlusconismo fu un collante portentoso, la moderata crescita economica era sufficiente a sostenere le ragioni della necessaria 'modernizzazione' del paese, il maggioritario incatenava anche le forze radicali più reticenti. Ma nonostante tutto non fu un processo privo di contraddizioni, e non solo simboliche: difficile in questi anni è stato per il Pd il rapporto con la Cgil, con i pacifisti, con i giovani impegnati nel movimento no-global, con i sindacati studenteschi, con gli anziani nelle sezioni. I governi di Prodi caddero anche per questo, nonostante la vulgata costruita dai media contro i piccoli partiti. La stagione arancione, con la vittoria di Vendola e poi l'elezione di tanti sindaci fuori dallo schema, fu l'inizio di uno smottamento dovuto a queste contraddizioni. Il governo Monti e la nascita del suo movimento alle elezioni del 2013 invece furono la risposta che i 'sistemici' misero in campo per impedire che il Pd deviasse - trascinato dagli arancioni e da Vendola - dal percorso stabilito. Fecero un favore a Grillo, ma rimediarono subito dopo costruendo la grande coalizione, che non aveva appeal ma non mancava della solidità parlamentare necessaria. E' stato Matteo Renzi a trovare la soluzione al problema dell'appeal, scaricando Berlusconi che nel frattempo finiva fuori dal Senato, e riportando il progetto sul binario stabilito con un metodo semplice: smettendo di ascoltare ciò che ancora in quel partito sopravviveva in termini di legami con il 'basso'. Basta cgil, basta movimenti, basta sezioni, basta intellettuali dalla visione critica. Avanti i giovani rampanti e spregiudicati, i consigli della Merkel, i manager delle grandi multinazionali, le categorie corporative e le lobby, i grandi nomi della finanza.
Per un po' ha funzionato tutto: il grido 'rottamazione' bastava a coprire il sapore vecchio delle politiche neoliberiste del governo. Poi però tutto è andato in frantumi alla prima occasione democratica - il referendum - contro il muro della realtà di un paese mortificato ed umiliato, allo stremo dopo quasi un decennio di crisi economica senza via d'uscita. E ora, ora che è chiaro a tanti -troppi- che per la sinistra nel passato ci sono stati vent'anni di errori, ora che è chiaro che non v'è salvezza - e quindi nemmeno consenso - per chi continua a percorrere quella strada, che senso ha ancora il Partito Democratico, se non è capace di immaginare una mission e un futuro diversi? Nessuno. Non ha alcun senso. Per questo si rompe, si scinde, perde peso elettorale. E' accaduto per primo al Pasok in Grecia, al Psoe in Spagna, al Partito socialista francese: forze letteralmente spolpate nell'identità e nella propria funzione politica. Accade anche al Pd, e sarà ancor più visibile nei prossimi mesi.
Di questo dovremmo ragionare. Di questo dovrebbero ragionare - almeno così credo io - Bersani e D'Alema, che in questi giorni purtroppo sembrano attori inconsapevoli di un copione scritto dalla storia come ineluttabile destino invece che come progetto. A nulla serve operare un rottura con Renzi senza operare una rottura con il suo governo e le sue politiche. Quello si, sarebbe un favore a chi oggi si candida a raccogliere le macerie del Pd da destra o dal movimento 5 stelle. Per dare un futuro alla sinistra bisogna rompere con il suo recente passato, con la storia della sinistra nella seconda repubblica. E quindi, anche se capisco sia difficile, anche con se stessi, anche con i Bersani e D'Alema degli ultimi vent'anni. Se ce la faranno saranno utili al paese, utili anche a tanti altri - tra cui noi di Sinistra Italiana - che tutto ciò cominciarono a vederlo almeno 3 anni fa.

Condividi